CinemaPrimo PianoUn oscuro elogio della violenza: “Tirannosauro” di Paddy Considine

Nadia Pannone16 Agosto 2019
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A volte la violenza non è una scelta. Un cane, se allevato con aggressività, può uccidere una persona. O sfigurare un bambino. Quando si cresce in miserevoli contesti, spesso la violenza è l’unica via di fuga. Un meccanismo volto a smorzare, anche solo per un attimo, l’assordante silenzio della solitudine. Nel sangue di Joseph (Peter Mullan) scorrono alcol e violenza. Una rabbia incontrollabile verso il mondo: i ragazzi sboccati al pub, i vicini bulli, persino il suo cane e migliore amico. Nessuno sfugge alle sue esplosioni d’ira. O meglio, quasi nessuno. Lo stesso uomo capace di uccidere a calci il proprio cane è, infatti, profondamente affezionato a un bambino e cerca come può di proteggerlo, per evitare che un’anima ancora pura possa assorbire quell’aggressività che lo circonda e finire per diventare come gli altri, come lui.

Hannah (Olivia Colman), proprietaria di un negozio di vestiti usati, arriva da tutt’altro contesto. Vive in una bella casa di un bel quartiere ed è una fervida credente. Eppure, nella sua borsa, nasconde una bottiglia di alcol ed è improbabile che i suoi lividi siano sempre causati da accidentali cadute nella vasca. Il dolore che porta dentro è troppo grave per essere condiviso, e allora preferisce sorridere cercando, con la sua fede, di donare al prossimo quella serenità che lei stessa agognerebbe. È proprio il suo sorriso ad attirare Joseph nel suo negozio e a dare inizio a un’amicizia tra due persone totalmente all’opposto eppure accomunate dalla solitudine che la violenza ha recato nelle loro vite.

Uno dei punti di forza di Tirannosauro (Tyrannosaur, 2011) di Paddy Considine è la caratterizzazione di due personaggi dalle mille sfaccettature, supportata dalle intense interpretazioni di Mullan e della Colman. Sin dai primi minuti risulta chiaro che l’obiettivo di Considine non è quello di far simpatizzare lo spettatore con il protagonista. La prima immagine che abbiamo di Joseph, infatti, è un avvertimento sulla brutale schiettezza che contraddistinguerà il film. Neppure durante i momenti con il piccolo Samuel o nella nuova tenera amicizia nata con Hannah, la pellicola scadrà mai in inutili sentimentalismi. Ogni volta che Joseph sembrerà addolcirsi, l’avvertimento risuonerà nei suoi scatti di collera e nell’oscurità di un passato mai pienamente svelato, ma che suggerisce quanto dolore abbia provocato a chi gli stava intorno.

Ma la violenza non sempre ha bisogno di facili scusanti, come un disagio economico o un ambiente ostile. Hannah non è cresciuta nei sobborghi, eppure la violenza ha segnato il suo corpo e il suo futuro. La sua unica colpa è stata cercare di sopravvivere affidandosi esclusivamente alla sua fede, nella speranza che suo marito potesse prima o poi cambiare. Ma una persona violenta spesso rimane tale e James (Eddie Marsan) fa persino più paura di Joseph: l’ipocrisia con cui prima ama, poi picchia, poi ama ancora e poi umilia Hannah, è quanto di più infido e minaccioso possa capitare nella vita di un essere umano. Il solo modo che avrà Hannah per mettere fine a questa spirale sarà, ancora una volta, ricorrere alla violenza: quella definitiva. Esistono, dunque, diversi gradi di violenza? Un atto è più o meno grave a seconda di chi lo compie? La pellicola non fornisce alcuna risposta in merito, ma cerca comunque di riflettere sulla questione, fornendo diversi punti di vista e scoprendo le carte su quegli avvenimenti passati, ingombranti quanto “tirannosauri”, che inevitabilmente tornano sempre a condizionare il presente, anche e soprattutto nel momento in cui sembra riaffacciarsi la speranza.

Considine – conosciuto perlopiù come attore (in numerose pellicole di Jim Sheridan e Shane Meadows), qui alla prese con il suo primo e pluripremiato lungometraggio – si muove da quell’abusato filone di film sulla linea di Ken Loach, riprendendone l’ambientazione nei sobborghi e le vicissitudini di quella fetta di popolazione britannica sostentata da lavori saltuari e sussidi statali, per fare una riflessione di tipo più intimista. Tutti questi elementi, seppure invadenti, fungono da contesto per focalizzarsi sulla storia di due persone agli antipodi, che nella solitudine hanno trovato un punto di incontro e nella morte un’occasione di rinascita; significativo, a tal proposito, il fatto che l’unico momento di spensieratezza giunga durante il funerale del migliore amico di Joseph. Lui non è una brava persona, eppure lo è per lei. Hannah invece, lo è, ma le avversità della vita l’hanno portata a compiere il peggiore dei crimini. Entrambi dovranno affrontare le conseguenze delle proprie azioni, giustificate o meno che fossero, sopraffatti da quelle vessazioni che sono spesso parte integrante della vita ma che risultano più tollerabili se condivise con l’altro.

«We were wasted son. We were wasted all»: così recita il brano We Were Wasted dei The Leisure Society, che accompagna l’ultima scena del film mentre Joseph – da solo – percorre un viale alberato. La consapevolezza di essere stati “sprecati” prima ancora di venire alla luce non potrà mai smettere di tormentare i protagonisti, ma Considine sembra concedere loro una sorta di redenzione. I cocci da raccogliere sono tanti, ma non infiniti. Nell’ultimo sguardo tra i due c’è la convinzione che d’ora in poi la strada sarà in discesa perché, seppur separati, ormai si appartengono e la solitudine è uno spauracchio che fa un po’ meno paura.

Nadia Pannone

Basta poco a renderla felice: un buon film, un po' di musica anni Ottanta, una libreria, qualche conversazione stimolante, un lago, delle luci al neon, una piazza deserta e assolata, delle foto vintage, una coperta e un buon caffè.