Tra le sale del British Museum si erge la magnificenza di una scultura soprannominata Giovane Memnone, eretta in memoria del faraone Ramses II. Venne acquisito dal museo londinese nel 1821, ma parte del monumento era già giunta nel 1818 a Deptford. Questo soprannome fu attribuito alla statua a partire da “Memnonuanum”, il nome greco del Ramesseum, il tempio funerario di Ramses II a Tebe. L’arrivo di questa maestosa opera d’arte a Londra venne anticipata dalla pubblicazione di un sonetto di Percy Bysshe Shelley (1792-1822), intitolato Ozymandias, corrispondente al nome greco del faraone.
Composto molto probabilmente nel dicembre del 1817, la poesia fu il frutto di una sorta di competizione poetica sorta tra il poeta romantico e l’amico Horace Smith: entrambi scrissero un sonetto avente come soggetto proprio la gloria passata di questo grande faraone. Quello di Shelley venne pubblicato nel gennaio del 1818 sulla rivista The Examiner.
Per la scrittura di queste poesie selezionarono un passo dello storico greco Diodoro Siculo che riportò l’iscrizione alla base della statua, nella quale è contenuto un monito ai posteri: chiunque avesse chiesto chi fosse o cosa avesse fatto Ramses, avrebbe avuto come risposta e come prova la grandezza delle sue opere: «Sono Osimandia, il re dei re. Se qualcuno vuole sapere quanto grande io sia e dove giaccio, superi qualcuna delle mie imprese» (Diodoro Siculo, Biblioteca Storica).
La genesi del sonetto di Shelley è da ricondurre allora a un pensiero ironico nei confronti di questa iscrizione e dell’ostentazione, emblema del potere monarchico. Il poeta scrive di aver incontrato un viaggiatore proveniente da una terra lontana che gli racconta delle rovine di una statua che si trovano nel deserto:
Incontrai un viaggiatore, veniva da un’antica
terra e mi disse: Due immense gambe di pietra
s’ergono nel deserto, senza tronco…Vicino, sulla sabbia,
giace a metà sepolto un viso smozzicato, e il cipiglio,
le labbra corrugate e il suo ghigno di freddo comando
dicono come esattamente lo scultore
abbia letto passioni che ancora sopravvivono, impresse
in quelle cose morte, alla mano che un tempo
le interpretò, e al cuore
che le nutrì: sul piedistallo appaiono
queste parole: “Il mio nome è Ozymandias, re dei re:
guardate alle mie opere, o Potenti, e disperate!”
Nient’altro resta. Attorno alle rovine
di quell’enorme relitto, le nude e sconfinate
sabbie deserte e piatte si stendono lontano.
Le rovine di questa statua, mezze coperte dalla sabbia del deserto, fungono da metafora per la transitorietà del potere monarchico e, in generale, della vita umana. Tutte le opere di Ozymandias si sono infatti deteriorate col trascorrere del tempo, ciò che di lui resta è stato distrutto da forze incorruttibili inevitabilmente in azione. Il potere dell’antico faraone è reso ancora meno influente dal fatto che non sia il poeta stesso a fare esperienza diretta di questa visione, bensì un enigmatico “viaggiatore”, venuto da una terra lontana per narrare ciò che resta delle gesta di un sovrano.
La descrizione di Shelley procede in maniera graduale, iniziando dal «viso smozzicato», passando poi ai tratti che esprimono il «freddo comando». L’attenzione è poi rivolta alla mani che hanno ritratto questi particolari, spostando l’importanza allora sul potere eternizzante dell’arte, l’unica capace di portare alla memoria dei posteri il ricordo di ciò che è stato.
Il monito del faraone è poi rivolto ai potenti del presente, invitati a tener conto del fatto che «nient’altro resta», solo una sconfinata distesa di sabbia, il deserto che avvolge la fragile e insignificante vita umana. L’illusione dell’immortalità ha ali di cera, emblema della hybris di chi è destinato a crollare in forza del tempo eternamente assolato.

Lucia Cambria
Siciliana, laureata in Lingue e letterature straniere e in Lingue moderne, letterature e traduzione. Particolare predilezione per la poesia romantica inglese e per la comparatistica. Traduttrice di prosa e versi, nel 2020 ha trasposto in italiano per Arbor Sapientiae il romanzo "L’ultimo uomo" di Mary Shelley.