La scultura fu ritrovata fortuitamente nel lontano 1882 – in località Ponte Galera, nel comune trapanese di Castelvetrano – da un pastorello di nove anni, tale Benedetto Prussiano, mentre riportava al chiuso alcuni maiali. Il giovinetto (efèbo nella Grecia antica) bronzeo dagli occhi di pasta vitrea, datato al V sec. a.C., venne alla luce rotto in più parti, all’interno di un sarcofago fittile distrutto da lavori agricoli, nell’area della necropoli di Bagliazzo. Si è escluso che facesse parte di un corredo funerario per via delle dimensioni (84,7 cm), ma si ritiene che in antichità la statua fosse stata momentaneamente sotterrata per poterla in seguito asportare, poi invece fu abbandonata per sempre.
Dopo il ritrovamento della fine dell’Ottocento, l’opera fu acquistata dal Comune di Castelvetrano per 50mila lire e venne conservata con scarso onore nel piccolo magazzino di oggetti antichi del Comune per ben 46 anni, nota solamente a un ristretto numero di studiosi d’arte antica. Nonostante l’evidente importanza dell’opera per la storia della scultura greca, le condizioni di conservazione ne avevano impedito un attento esame, tanto che finì nel dimenticatoio e addirittura, in alcune pubblicazioni risalenti agli inizi del Novecento, fu considerata scomparsa.
L’opera si ridestò dal sonno dell’oblio solamente nel 1928, per interessamento del filosofo castelvetranese Giovanni Gentile, e grazie all’insistenza dell’archeologo Pirro Marconi venne effettuato un primo restauro che fu affidato alle mani di Giuseppe D’Amico, primo restauratore del laboratorio dell’allora R. Museo Archeologico di Siracusa, sotto la direzione di Paolo Orsi. Le condizioni della statua prima del restauro sono descritte minuziosamente da Marconi in un testo da lui pubblicato nel 1928: «Essa era rotta in sei pezzi (tronco, gamba sinistra, braccio destro, braccio, avambraccio e mano sinistra), mancava di parte del piede destro, e inoltre la testa era pressoché spiccata dal busto, trattenuta solo dalla materia interna; le incrostazioni del terreno in cui aveva giaciuto la bruttavano ancora in alcune parti, mentre in altre era stata praticata di recente con un coltello una bestiale cura radicale, raschiando il metallo stesso con lo scoprirne il vivo. Nella frattura del capo, specie sulla gola, le labbra della ferita presentavano una insidiosa corrosione. Inoltre su vari punti del corpo erano degli intacchi praticati con una lama (forse coltello) prodotti non all’atto della scoperta (un colpo di zappa avrebbe asportato addirittura gli arti) ma da tentativi di ignoranti diretti a esperimentare il metallo della statua (il bronzo antico appare, nelle fratture, lucente e colorito come l’oro vecchio)».

Nello stesso testo si viene a conoscenza delle esigenze che vennero affrontate durante il restauro: la pulitura e la conservazione generale esterna dell’opera (che era ricoperta di incrostazioni e sudiciume), tramite un lavaggio di acqua calda e sapone, mentre solo in alcune parti fu effettuato un trattamento con alcool; la riconnessione dei vari pezzi in cui la scultura era stata spezzata, operazione che venne effettuata saldando le anime interne della statua (le operazioni di saldatura furono precedute da un’accurata pulitura interna dei pezzi). Quanto detto fu eseguito rispettando le condizioni originali dell’opera e lasciando visibile il restauro apportato (come era solito fare all’epoca). Si comprese, inoltre, che già in età greca due pezzi della scultura erano stati risaldati: il braccio sinistro e la punta del piede destro.
L’opera – che venne datata tra il 480 e il 460 a.C. – raffigurante un adolescente nudo, ritto, stante sulla gamba sinistra e con la destra portata in avanti, si presenta esile, dallo scarso sviluppo muscolare, dunque ben lontana dall’ideale atletico della plastica greca. Marconi notò, infatti, che i canoni stilistici classici erano totalmente assenti a causa di una certa slegatura tra le parti, e la considerò – pertanto – un prodotto della scuola plastica selinuntina. In seguito, da altri studiosi furono sottolineate le coincidenze formali e stilistiche con le metope del tempio E di Selinunte. Dunque l’Efebo, che pure mostra elementi attici nella visione del corpo e nella ponderazione, è ritenuto con ogni probabilità un prodotto dell’arte locale. Per quanto riguarda l’iconografia fu ipotizzata una possibile identificazione con l’immagine umanizzata del fiume Selinus quale appare nella monetazione del V secolo, mentre uno studio portato avanti dal 1976 dal prof. Giuseppe Camporeale identificherebbe la scultura con Dioniso Íakchos.

A seguito dell’impegnativo ripristino dell’opera, essa fu esposta all’allora Museo Archeologico Nazionale di Palermo fino al 1933, quando fu restituita alla città di Castelvetrano e collocata a Palazzo Pignatelli, sede del Comune, precisamente nell’anticamera dell’ufficio del Sindaco. In tale luogo rimase fino alla notte tra il 30 e il 31 ottobre del 1962, data in cui la scultura venne clamorosamente trafugata dalla mafia. I banditi tentarono di vendere il bronzo magno greco a collezionisti d’arte esteri, tanto che per adempiere al proprio scopo fu condotto in America e in seguito in Svizzera, per poi fare ritorno in Sicilia, dove fu nascosto a Gibellina. I malavitosi non riuscirono a piazzare l’opera, quindi chiesero un riscatto di circa 30 milioni lire al Comune di Castelvetrano, che ovviamente non intese pagare.
Da quel momento entrò in gioco colui che da tempo era l’autorità assoluta nel settore dei ritrovamenti dei beni culturali: si tratta dell’abile Ministro plenipotenziario Rodolfo Siviero, che si era occupato e si stava ancora occupando del recupero delle opere d’arte trafugate dai nazisti durante il secondo conflitto bellico: chi meglio di lui poteva risolvere questo caso?
A sei anni di distanza dal furto, spinto dagli antichisti più autorevoli dell’epoca, tra cui Massimo Pallottino e Ranuccio Bianchi Bandinelli, Siviero iniziò a rintracciare il bronzo. Egli allora organizzò un’operazione di recupero insieme ai suoi uomini, alla rete di informatori e infiltrati di sua fiducia, al questore di Agrigento Ugo Macera, al vice questore di Palermo, Aldo Arcuri, al commissario Giovanni Console ed ai brigadieri Salvatore Urso e Calogero Salamone. La trattativa con le cosche coinvolte durò diversi mesi, fino a quando Siviero – fingendosi ricettatore – fissò con i malviventi un finto accordo economico della somma di 30 milioni e decise il luogo dello scambio: Foligno. La tranquilla città umbra venne scelta non solo per la sua centralità, ma soprattutto perché a Foligno vi era il laboratorio dell’antiquario Giuseppe Fongoli, amico di Siviero, messo a disposizione come sede dello scambio. I malviventi che giunsero in Umbria per concludere l’affare erano cinque: Attilio Sciabica, che condusse la trattativa, Vincenzo Ragona, Salvatore Nuccio, Leonardo Bonafede e Gregorio Gullo.
Sciabica andò al laboratorio per controllare i 30 milioni e li marcò mordendo le mazzette per riconoscerle al momento dello scambio, poi tornò dai colleghi. Intanto i poliziotti erano nascosti in una stanza attigua al laboratorio, pronti a intervenire. Quando i cinque arrivarono sul posto dello scambio, Siviero riuscì abilmente a farne allontanare tre, facendo entrare solamente Sciabica e un altro. Siviero aprì la valigia in cui – tra la biancheria – era riposta la statua, la prese, ne accertò l’autenticità, consegnò il denaro ai malviventi e si tolse il cappello: questo era il segnale. I poliziotti fecero irruzione e immobilizzarono i due. Intanto un terzo ricettatore venne disarmato dal brigadiere Urso, mentre gli altri due complici aprirono il fuoco. Fortunatamente non ci furono né danni, né vittime: l’Efebo era salvo. Rodolfo Siviero fu dichiarato cittadino onorario dal sindaco e dalla giunta di Castelvetrano.


Il 13 marzo 1968 la scultura venne portata a Roma, dove il direttore delle Belle Arti decise di consegnarla subito alla Sicilia «per evitare altre manomissioni». Nell’isola il bronzo fu depositato nella sede del Banco di Sicilia a Palermo. Mentre con sentenza della Corte di Appello di Perugia i malavitosi furono condannati per furto e ricettazione, ci si accorse che le condizioni della statua – dopo sei anni di clandestinità – erano preoccupanti, quindi venne deciso un nuovo restauro. Con un aereo militare, il 13 maggio del 1970 il giovinetto bronzeo fu trasportato a Roma, nei laboratori di restauro dell’allora Istituto Centrale del Restauro, dove giunse scortato dal colonnello Mambor, comandante del Nucleo Tutela Patrimonio Artistico, costituito il 3 maggio 1969. L’intervento di restauro fu diretto da Licia Vlad Borrelli, durante il quale furono effettuati in particolare analisi chimiche e fisiche; fra le osservazioni fatte spicca quella secondo cui già all’epoca della fusione erano avvenuti alcuni guasti subito riparati dall’artigiano selinuntino che realizzò l’opera, tramite fasce di metallo aggiunte all’altezza del torace e delle gambe. Al termine del restauro, nel maggio del 1979, l’ICR organizzò una Mostra Didattica nella sede dell’Istituto.

Da Roma l’Efebo ritornò nuovamente in Sicilia, dove venne esposto al Museo Archeologico Regionale “A. Salinas” di Palermo, nella sala di Selinunte, dove rimase per ben 18 anni. Non poche furono le polemiche da parte di chi pretendeva – giustamente – che “lu pupu di Ponte Galera” (come veniva chiamato dai castelvetranesi) tornasse nel comune di appartenenza; si disse addirittura che era stato “rapito” per una seconda volta, come si legge in un articolo pubblicato sulla testata Trapani Nuova del 15 novembre 1991. Nonostante il timore che il bronzo non facesse più ritorno nel comune trapanese, nel 1997 prese posto a Palazzo De Majo, sede del Museo Civico Selinuntino di Castelvetrano, tornando così nel luogo di origine.

I viaggi dell’Efebo non terminarono: nel 2004 fu esposto ad Atene in occasione dei Giochi Olimpici, nel 2012 volò in Cina per rappresentare l’Italia all’Expo di Shangai, dove fu trattenuto fino all’aprile 2013; in seguito, tra il 2015 e il 2016, prese parte alla mostra Selinunte accende lo spirito dell’arte greca in Sicilia, percorrendo la via dei Mulini e la Regia trazzera presso la Casa del Viaggiatore nel Parco Archeologico di Selinunte.

La preziosa scultura, di cui si è rischiato di perdere per sempre la memoria, ha avuto – come si è visto – un’esistenza tormentata, fra restauri, rapimenti, sparatorie e spostamenti – legali e illegali – che l’hanno portata addirittura oltreoceano. Chi sa quanti viaggi dovrà ancora affrontare per rappresentare quella cultura selinuntina di cui è portatrice, viaggi che non potrebbe compiere senza il mirabile lavoro svolto da Rodolfo Siviero e dai suoi uomini.

Anna D’Agostino
Classe '93, laureata in Storia dell'Arte con una tesi in Museologia sull'arredamento dell'Ambasciata d'Italia a Varsavia dalla quale è scaturita una pubblicazione in italiano e polacco. Prosegue la ricerca inerente l'arredamento delle Ambasciate d'Italia nel mondo grazie a una collaborazione con la DGABAP del Mibact. É iscritta al Master biennale di II livello "Esperti nelle Attività di Valutazione e di Tutela del Patrimonio Culturale".