LetteraturaPrimo Piano«La terra è piena di figli di nessuno»: l’avviso di Juan Rodolfo Wilcock ai saggi e ai mediocri

Lucia Cambria3 Giugno 2020
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«Vivere è percorrere il mondo / attraversando ponti di fumo». La vita per Juan Rodolfo Wilcock si riassume in questi due versi. La fugacità dell’esistenza umana è sempre percepibile nei suoi scritti, in cui si mischiano visioni eteree di sogno e descrizioni di luoghi comuni e umani, quasi dolorosamente umani: «Che l’uomo si dimeni follemente o rimanga seduto in una poltrona, il risultato sarà alla fine sempre lo stesso: la sua vita sembrerà un sogno, come un sogno trascorsa, come un sogno dimenticata. Giudicare una vita è dunque giudicare un sogno […] nel quale tutte le epoche e i luoghi si confondono: il Medioevo, gli Stati Uniti, l’Impero Romano, la Cina».

J.R. Wilcock ebbe in sé una pluralità di origini: nato nel 1919 a Buenos Aires da padre inglese e da madre di origine italiana, avrebbe poi eletto l’Italia come sua dimora, tanto da richiedere la cittadinanza – ottenuta postuma, nel 1979 – e da scegliere la lingua italiana come idioma della sua scrittura. Prima di abbandonare l’Argentina, diresse delle riviste letterarie e iniziò a pubblicare le prime raccolte di poesie. Nel 1955 si trasferì a Roma e collaborò all’edizione argentina dell’Osservatore Romano. Dopo aver lasciato la Capitale, che reputava troppo caotica per i suoi gusti, si trasferì nei pressi di Velletri e poi, dopo il 1970, nella periferia est di Roma, a Lubriano, dove morirà nel 1978.

L’adozione della lingua italiana fu un atto fondamentale. La parola per il poeta è elemento essenziale – quasi rivelatore – dell’animo, proprio perché caratteristica che più distingue l’uomo nella costellazione del creato, scenario sul quale svariati esseri condividono l’esperienza dell’esistere. La parola, e con essa la lingua, sono colonne portanti dell’identità di un uomo e ancor di più di quella di un poeta.

A questo proposito, indicativo sarà ciò che dirà in seguito: «Credo che se dovessi aiutare qualcuno a capire che sono o chi sono come scrittore, rileverei due punti per me fondamentali: sono un poeta, appartengo alla cultura europea. Come poeta in prosa, discendo per non complicate vie da Flaubert, che generò Joyce e Kafka, che generarono noi (tutto ciò è da intendere allegoricamente, perché quelle persone rappresentano epoche, modi di pensare). […] Come scrittore europeo, ho scelto l’italiano per esprimermi perché è la lingua che più somiglia al latino […]. Un tempo tutta l’Europa parlava latino, oggi parla dialetti del latino».

Ecco allora che le due caratteristiche attorno alle quali ruoterà la sua scrittura, sono delineate: Wilcock è in sé poeta ed europeo, assumendosi così la doppia missione di versificatore dell’umana esistenza e di erede – e, allo stesso tempo, di testimone – della cultura europea.

L’intento di Wilcock sembra allora quello di voler dimostrare come si possa raccontare l’umanità, sentirsi in unione con epoche passate e continenti mai visti, restando espressamente e volutamente “europeo”: la sua è insomma una prospettiva da uomo occidentale, figlio di un canone letterario ben definito, appartenente a una cornice statica ma allo stesso tempo resa dinamica dal sentire umano che si fa individuale e comune insieme.

«La terra è piena di figli di nessuno», scrive in Avviso ai mediocri, e questo concetto ossessiona il poeta, tanto che lo ripeterà nella poesia a questa speculare, Avviso ai saggi: «Il mondo è pieno di figli di nessuno». La speranza di una parvenza di immortalità giace solo nell’arte, nelle creazioni dell’uomo, nella poesia: «Ciascuno cerchi il suo modello, / quelli che non ne hanno sono schiavi», ammonisce in Avviso ai mediocri.

E così spiegherà il perché molti artisti siano morti in giovane età, perché ormai saturi di quella «luce che cerca di palesarsi attraverso le opere umane», una luce che ha deciso di «illuminare in fretta la totalità di quei corpi mortali che dovevano trasmetterla, Keats, Mozart o Marlowe».

Che l’uomo si trovi un “padre” è condizione necessaria affinché il mondo dei «figli di nessuno», attraversabile solo su “ponti di fumo”, acquisti quel senso che da sempre perdura e che mai a nessuno si disvela del tutto, come scrive in Quando tu, mia poesia, leggi poesia:

 

e accade in quel momento che quei versi
come una freccia scagliata nei secoli
raggiungono chi un giorno li ha ispirati.

 

Il concetto fondamentale nella poetica di Wilcock è allora quello dell’essenzialità di una ben definita identità, necessaria per proseguire nella propria condizione esistenziale: «Per arrivare in qualche luogo / bisogna trovare un passaggio».

Lucia Cambria

Siciliana, laureata in Lingue e letterature straniere e in Lingue moderne, letterature e traduzione. Particolare predilezione per la poesia romantica inglese e per la comparatistica. Traduttrice di prosa e versi, nel 2020 ha trasposto in italiano per Arbor Sapientiae il romanzo "L’ultimo uomo" di Mary Shelley.