Nel 1616 il mondo pianse due dei più grandi geni mai esistiti, capostipiti di due delle più belle letterature al mondo, nonché padri del romanzo e del teatro moderno: Miguel de Cervantes e William Shakespeare. Morti, come se non bastasse, a un giorno di distanza l’uno dall’altro. Il mondo pianse e, forse, piange ancora, ma facilmente si consola, perché a essere sopravvissute ai due artisti sono le loro opere. E qui ci sarebbe tanto da parlare di quei capolavori risparmiati dalle sabbie del tempo, ma sarebbe davvero un miracolo far quadrare tutto in così poche battute. Si deve, quindi, operare una selezione – seppur dolorosissima – e soffermarsi su uno degli aspetti più interessanti del teatro shakespeariano e, precisamente, sull’ultima commedia del maestro inglese. Si parla, naturalmente, de La Tempesta.
La trama, come tutte le ultime opere del grande drammaturgo, è complessa e intricata. Basterà ricordare che il protagonista – nonché regista – di questa vivace e movimentata messa in scena è Prospero, confinato su un’isola deserta insieme alla dolce e innocente figlia Miranda, nonché a una bizzarra e mostruosa creatura, nota con il nome di Caliban o Calibano. Come si saprà nel corso della narrazione, Prospero è l’ex duca di Milano, deposto dal fratello Antonio. Questi – personaggio negativo per eccellenza, simbolo dell’ambizione, dell’avidità di chi vuole conquistare sempre più potere – si allea con il nemico giurato del fratello, il re di Napoli Alfonso, per approfittare della sua stessa sete di potere.
Tutto ha inizio con il proposito di Prospero di vendicarsi e far sposare la sua bellissima e ingenua figlia con Ferdinando, figlio a sua volta del re di Napoli, nonché suo erede. Per realizzare i suoi piani, fa scatenare una tempesta da Ariel – uno spiritello dell’aria – e dalle tante forze magiche che vivono nell’isola, che redarguisce e governa. E, proprio grazie a questa tremenda bufera, tutti i personaggi si ritrovano sull’isola. E qui Prospero fa vivere ai tanti personaggi della commedia ognuno la propria avventura, dando vita a tante storie in contemporanea, fili narrativi nelle mani di Prospero che – da straordinario regista qual è – sa bene cosa alberghi nel cuore dei suoi personaggi. Ogni carta, seppur mescolata, rispetta ogni suo piano ed egli – come un bravo giocatore di scacchi – tiene d’occhio tutti i movimenti dell’avversario e sotto scacco il suo re (di Napoli). Per l’intera durata della commedia, Prospero controlla tutto, finché non abbandona quei fili così sapientemente stretti.
Comprende che la vita è destinata a svanire, come in un sogno, e che siamo tutti attori in uno spettacolo destinato a finire. A che pro serbare rancore, dunque? Non appena Prospero perdona i suoi nemici, tutto si conclude felicemente. La commedia è di una notevole complessità e, nonostante il suo lieto fine, non manca di avere quelle zone d’ombra che da sempre caratterizzano il genere comico, specie in Shakespeare. Particolarmente degna di nota è l’ambiguità dei suoi personaggi. Prospero, per esempio, seppur si mostri e appaia come un personaggio positivo, in verità assume l’aspetto di un vero tiranno all’interno dell’opera. Infatti, una volta detronizzato, prende il comando di un’isola che non è sua, obbliga gli spiriti che vi abitano a servirlo, usa la figlia come merce di scambio per le sue brame, mettendo la vendetta prima del suo stesso bene. L’isola, d’altra parte, è di Calibano, descritto più volte come cattivo e incivile, eppure trattato alla stregua di uno schiavo per tutta la durata dello spettacolo. Prospero si serve dei suoi poteri magici per governare: tiene in pugno Calibano, lo sfrutta, lo tiene segregato e gli impedisce di mostrarsi alla luce del sole.
Eppure, nonostante Calibano venga descritto come un mostro, un selvaggio, un essere repellente, che ha tentato perfino di insidiare Miranda, può davvero considerarsi un personaggio del tutto negativo? Il suo dolore è tangibile per l’intera durata dell’opera teatrale. È come Shylock de Il Mercante di Venezia. Ci ripugna, rappresenta tutto ciò che la civiltà detesta, ma in lui riconosciamo un dolore, una reiterata sofferenza, tutta la nostra umanità. Un grido disperato di ribellione e un desiderio di libertà che risuonano nello spettatore di ogni tempo. Calibano, diversamente da Prospero, vive in armonia con tutto quello che c’è sull’isola, la conosce e la rispetta. La tratta come qualcosa di vivo e odia Prospero, in quanto tiranno e usurpatore.
Vi è una scena che è particolarmente eloquente in tal senso. Quando Calibano è solo con Stefano e Trinculo, che sono le due spalle comiche della commedia, cerca di tranquillizzarli non appena odono degli strani rumori nell’aria, che altro non sono che i versi prodotti dagli spiritelli dell’isola. E dice, in uno dei monologhi più belli e commoventi del teatro shakespeariano: «Non devi aver paura. L’isola è piena di rumori, suoni e dolci arie che danno piacere e non fanno male. A volte sento mille strumenti vibrare e mormorarmi alle orecchie. E a volte voci che, pur se mi sono svegliato dopo un lungo sonno, mi fanno addormentare di nuovo. E poi, sognando, vedevo spalancarsi le nuvole e apparire ricchezze pronte a cadere su di me. Così, svegliandomi, piangevo per sognare ancora».
Calibano è il prototipo di tanti personaggi della letteratura, come il Quasimodo del Notre-Dame de Paris di Victor Hugo. Personaggi orrendi, che ripugnano per il loro aspetto, ma che in verità celano un grande cuore. Possiamo solo immaginare cosa provasse uno spettatore ai tempi di Shakespeare che, certamente, si ritrovava a ridere per l’aspetto di questo Calibano, ma che dinanzi alla sua storia e a quello struggente monologo certamente ha rivisto tanto della propria sofferenza: un grido di dolore tutto umano, che non risparmia nessuno.

Adele Porzia
Nata in provincia di Bari, in quel del ’94, si è laureata in Filologia Classica e ha proseguito i suoi studi in Scienze dello Spettacolo. Giornalista pubblicista, ha una smodata passione per tutto quello che riguarda letteratura, teatro e cinema, tanto che non cessa mai di studiarli e approfondirli.