ArteLetteraturaPrimo PianoEdito INedito: il mito della Sibilla Cumana in Ovidio e in un affresco di Ercolano

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Un libro di Ginevra Latini, recentemente edito da Arbor Sapientiae, si addentra nel mito della Sibilla Cumana, restituendocene un affresco tanto interessante quanto sfaccettato e complesso.

La pubblicazione (80 pp., 15 euro) muove i primi passi a partire dalla storia della Sibilla Cumana trasmessa da Ovidio nel XIV libro delle sue monumentali Metamorfosi, con una rappresentazione così affascinante e particolare che certamente colpì anche l’immaginario antico. Le attestazioni iconografiche del periodo augusteo sono molto scarse, ma ci mostrano l’influenza che la narrazione ovidiana ebbe sulla produzione artistica e sulla decorazione parietale con la diffusione del “topos” della giovane Sibilla in atteggiamento sottomesso al dio. In questo panorama spicca, tanto per bellezza di composizione quanto per complessità di interpretazione, un affresco del I sec. d.C., ritrovato a Ercolano nel 1749, che raffigura il sonno della giovane Sibilla nel momento in cui il dio Apollo sta per invasarla prima che si compia il rito della divinazione, con un rimando di elementi simbolici alla storia e alla funzione dell’oracolo sibillino.

La copertina del libro, edito da Arbor Sapientiae

Solo da Ovidio (Metamorfosi, libro XIV, vv. 101-154) apprendiamo la storia della Sibilla Cumana, pochi versi in cui la donna racconta della sua ingenuità di fanciulla e di come si trova imprigionata in un ruolo non consapevolmente scelto. Rispetto alla tradizione precedente Ovidio non usa la Sibilla per celebrare Roma, l’impero e le sue origini, così come fa Virgilio poco prima nell’Eneide. A lui preme raccontare una storia di trasformazione umana, arricchendola di quei particolari che fino ad allora erano mancati alla narrazione mitologica. Il contesto è lo stesso di quello virgiliano: Enea è appena approdato sulle sabbiose spiagge meridionali del golfo di Gaeta, non lontano da Cuma, e si dirige verso l’antro della Sibilla. Il personaggio della Sibilla in Ovidio appare quindi strutturato sulla figura di una donna che, nel momento in cui arriva Enea, ha 700 anni ed è ormai molto vecchia, ma racconta del suo momento di “investitura” oracolare, ed è da questo ricordo – collocato nel tempo del mito – che apprendiamo la storia molto singolare di una giovane vergine, ingenua ma integerrima nel difendere la sua integrità, che rimane intrappolata in una dimensione di vita sospesa tra umano e divino. Ecco in breve la vicenda. Apollo la vide e se ne innamorò, ma lei lo rifiutò e il dio, per convincerla a cedere, le chiese di esprimere un desiderio: qualsiasi cosa avesse desiderato lui l’avrebbe concessa. E così la giovane raccolse da terra un pugno di sabbia e domandò di poter vivere tanti anni quanti erano i granelli stretti nella sua mano, ma non pensò a specificare che fossero anni di giovinezza e così fu imprigionata in una vita da mortale ma allungata a tal punto da divenire insopportabile rispetto all’umana condizione secondo natura.

La trasfigurazione di una donna bella a tal punto di essere amata da Apollo in una vecchia orrida e terrificante perché esacerbata dall’aggravio della lentezza dell’invecchiamento che la divinità le ha imposto come punizione per il rifiuto amoroso sono in Ovidio i punti salienti della vicenda della Sibilla Cumana. Si tratta questa volta di una metamorfosi molto umana e ben comprensibile che fa sembrare la morte una punizione più dolce rispetto a una vecchiaia che avanza a passi troppo lenti per essere tollerata. Perché la Sibilla è appunto umana, il suo corpo non è fatto di essenza divina e lei stessa lo ribadisce a scanso di equivoci o di sacrileghe attribuzioni: non vuole essere venerata come un nume, né onorata con incenso riservato alle divinità. All’eterna giovinezza si sostituisce una quasi eterna vecchiaia che strema il corpo umano fino a ridurlo al nulla. La mutazione sarà completa quando la Sibilla diventerà invisibile, ma continuerà a udirsi la sua voce. Tra gli aspetti che emergono dalla descrizione ovidiana della Sibilla vi è certamente quello della sottomissione. Lo sguardo fisso a terra, con il capo reclinato in attesa che il dio Apollo discenda nel suo corpo, è un’immagine forte, ripresa forse già da Ovidio dalla tradizione della divinazione greca e che egli sfrutta al meglio per sottolineare con incisività il lato umano della sua Sibilla. Non è un caso che le immagini di epoca imperiale a noi pervenute raffigurino la Sibilla sempre in atto di sottomissione.

Sebbene sia scarso il materiale iconografico relativo alla Sibilla in epoca romana, quanto a noi pervenuto – databile a un periodo coevo e successivo al poeta – riprende l’immagine offerta da Ovidio di una giovane nel momento in cui si sottomette alla volontà di Apollo per diventare suo oracolo, mezzo di trasmissione con il mondo umano. È questa istantanea di una fanciulla seduta con lo sguardo basso e con fare dimesso, nel momento che precede la fase oracolare, che sembra imporsi nell’iconografia artistica augustea e post-augustea (cfr. affresco di Ercolano); gli artisti accolgono quindi la versione ovidiana del mito della Sibilla, più umana e sottomessa al volere divino, rispetto a quella celebrata da Virgilio e ancor meno serena, equilibrata e fiera rispetto ai volti incisi sulla numismatica repubblicana.

Denario con Sibilla e tripode, emesso da L. Manlius Torquatus, 65 a.C. D/ SIBYLLA; testa della Sibilla volta a destra – R/ L TORQVAT – III.VIR; tripode con praefericulum (sormontato da un’anfora) tra due stelle; entro corona d’alloro.

Durante gli scavi del 1749 fu ritrovato a Ercolano, in luogo imprecisato, un affresco di dimensioni quasi quadrate che fa presumere la sua posizione a quadretto centrale su parete dipinta di IV stile. Appena ritrovato fu staccato e inserito nella collezione del Museo Borbonico di Portici; attualmente si trova al MANN (Museo Archeologico Nazionale di Napoli), inventariato con il n. 9530. Nel primo catalogo dei reperti ritrovati durante gli scavi borbonici settecenteschi l’opera è segnalata con il numero di inventario CCXXXIII (233). Gli Accademici Ercolanesi, che curarono la pubblicazione della monumentale opera Le pitture antiche di Ercolano e contorni, inserirono l’incisione dell’affresco nel tomo II, stampato nel 1760 dalla Regia Stamperia di Napoli. La tavola XVII è dedicata appunto a questa particolare pittura con un’accurata descrizione dei colori originali e di piccoli dettagli visibili a occhio nudo poco dopo il ritrovamento, che però nel tempo sono spariti. Riportiamo le parole di apertura con cui si sottolinea la straordinaria abilità del pittore e la difficoltà di interpretazione del soggetto raffigurato: «Vaghissima certamente è questa dipintura, e ben può dirsi eccellente opera di maestra mano. Quanto però appaga lo sguardo la gentilezza e la perfezione dell’arte e nel disegno e nel colorito, altrettanto par che sospenda l’animo l’incertezza del significato e l’oscurità del pensiero». Il testo continua poi con la spiegazione della scena raffigurata nell’affresco, organizzata intorno a una divinità e a una fanciulla (da intendersi qui in modo generico come un’epifania divina a una giovane mortale e successivamente identificati in Apollo e la Sibilla Cumana): «L’abito, i calzari, e il nimbo, sebbene anche alle statue possano convenire, unite nondimeno queste cose al colore del volto, e delle mani, alla capigliatura e alla posa di questa figura, sembrò a molti che dimostrassero non già una statua, ma un personaggio. Onde si disse, che il pittore aveva forse voluto rappresentarci l’apparizione del Nume, che parla alla giovane donna seduta in atto di pregare, tutta dimessa e riverente».

A destra il dio è poggiato a un pilastro, o altare, vestito con un lunga tunica rossa, bordata di scuro lungo il collo e le maniche; una fibbia dorata spicca a metà del braccio sinistro che si ripiega all’intero dell’abito; indossa calzari gialli che coprono fino a metà il polpaccio; sulla testa un nimbo o aureola circonda la lunga capigliatura che è sorretta sulla fronte da una fascia verde. Nella mano destra tiene un arco non teso, lo sguardo è rivolto verso la fanciulla.

A sinistra, su un sedile a zampa leonina (che ricorda la zampa della Sfinge e forse vuol esserne il simbolo a cui la Sibilla è spesso associata), siede una giovane donna, il capo abbassato in mesto atteggiamento, quasi di sottomissione, vestita da chitone giallo dorato e di un sottilissimo peplo grigio-azzurrino fermato con quattro fermagli sul braccio destro che rimane scoperto fino a parte del petto; tiene la mano destra poggiata sul bordo rilevato del sedile marmoreo e con la sinistra, appoggiata sulla gamba destra, sorregge una ramoscello d’alloro. Ha lunghi capelli ricadenti sulle spalle con corona di foglie, il collo è adornato da una lunga catena d’oro, la testa è reclinata in atteggiamento dimesso, lo sguardo fisso a terra. Ai piedi indossa sandali legati con strisce di cuoio color rosso.

Alcuni dettagli vanno però notati per identificare al meglio la scena rappresentata: lo sguardo della donna rivolto a terra e l’atteggiamento dimesso, abbandonato in una posa quasi dormiente, raffigurati con grande maestria di tratto, sono attitudini distintive del personaggio che evidentemente in epoca antica era conosciuto in quella posa. Il ramoscello di alloro diramato tenuto dalla fanciulla nella mano sinistra è posizionato in modo centrale rispetto alla scena rappresentata e quindi ha una funzione non secondaria nella narrazione iconografica. Notiamo anche una figura che appena si intravede nel fondo accanto al corpo della donna, oggi assai perduta, ma che sappiamo si distinguesse con maggiore evidenza nel Settecento, in tempi prossimi al ritrovamento, quando ancora i colori e i tratti erano vivi. Questa figura appena accennata con il volto vicino al viso della fanciulla, quasi un’ombra disegnata in trasparenza come un’entità impalpabile, sta a indicare – secondo altre tipologie già note – la divinità che entra nel corpo di un umano per persuaderlo o per farne strumento della sua volontà. Da notare è anche l’ombra della mano allungata a indicare l’oggetto poggiato ai suoi piedi. L’oggetto deposto a terra vicino ai piedi della fanciulla, che è a lei pertinente e non può essere inteso come la faretra dell’arco che tiene il nume in mano in quanto presenta una chiusura evidente nella parte alta, è assimilabile per tipologia a una capsa (contenitore cilindrico, di cuoio o di legno, in cui venivano conservati i papiri arrotolati, in questo caso di dimensioni notevoli e di ricca decorazione policroma).

Tali particolari sono per noi ricchi di informazioni, perché ci permettono di trovare una forte corrispondenza con i versi di Ovidio sopra riportati, così da creare un doppio registro di narrazione, quello visivo e quello letterario. In questo modo gli elementi si fondono e si chiariscono vicendevolmente e vanno acquisendo significato ai nostri occhi, che purtroppo non possono più avere, nell’ammirare un affresco del I sec. d.C., gli strumenti di decifrazione culturale che possedevano gli antichi. Nello specifico possiamo affermare che l’affresco sembra ritrarre la Sibilla Cumana secondo uno stereotipo iconografico sviluppatosi sulla base della tradizione ovidiana, che appunto raffigura la Sibilla nell’istante prima dei essere invasata da Apollo, quando – ancor fanciulla – non si concede, ma deve arrendersi a diventare strumento oracolare del dio. Nell’affresco troviamo appunto questo gesto di abbandono, da alcuni definito il sonno della Sibilla, che precede il vaticinio :

 

«At illa diu vultum tellure moratum
erexit tandemque deo furibunda recepto»

«La Sibilla, rimasta a lungo con lo sguardo fisso a terra,
si sollevò frenetica finalmente scossa dal dio»

Ovidio, Metamorfosi, libro XIV, vv. 106-107

 

Secondo Ovidio, quando Enea giunge nelle spiagge di Cuma (vicino all’antro della longeva profetessa per chiederle di essere guidato nell’Averno a trovare l’ombra del padre), la Sibilla è assorta in un’inerzia propedeutica alla divinazione e alla fine della fase oracolare indica all’eroe di cogliere un ramoscello dorato dal bosco sacro a Persefone per poter entrare nel regno dei morti:

 

«invia virtuti nulla est via’ dixit et auro
fulgentem ramum silva Iunonis Avernae
monstravit iussitque suo divellere trunco»

«alla virtù nessuna via è preclusa, Disse e un ramo
d’oro splendente gli mostrò nel bosco di Giunone infera,
e gli ordinò di staccarlo dal tronco»

Ovidio, Metamorfosi, libro XIV, vv. 113-115

 

La sottomissione della Sibilla nell’affresco è rappresentata anche dal ramo – plausibilmente di alloro – che porta in mano, simbolo della vittoria di Apollo nei suoi confronti e allo stesso tempo della sua capacità di mediare con il mondo divino. Il ramo che la Sibilla ha fatto cogliere a Enea per offrirlo in dono a Proserpina è simbolo di vita e allo stesso tempo una sorta dì protezione, un amuleto, per entrare negli inferi. La pianta di alloro era considerata sacra da Apollo perché, secondo la leggenda, in essa fu trasformata la ninfa Dafne che fuggiva dal dio e fu lo stesso Apollo a proclamarla sacra al suo culto, tanto da consacrare i suoi rami come simbolo di gloria e di vittoria. Nacque da questo la consuetudine di posare sul capo dei vincitori, in competizione o in battaglia, una corona di rami di alloro intrecciati. L’ambiguo rapporto con il dio Apollo è ben espresso sia nei versi ovidiani che nell’affresco; è una storia di tangibile umanità in cui la fanciulla è coinvolta suo malgrado attraverso l’atteggiamento di esplicita sottomissione. La vergine cumana rimane mortale e non può sottrarsi alla sua condizione di subordinazione al dio perché ha peccato di ingenuità.

Maria Elisa Garcia Barraco

Svolge l'attività di redattrice contribuendo in ambito filologico ed archeologico alla pubblicazione di numerose opere. Attualmente la sua ricerca è rivolta allo studio e al recupero di testi particolarmente rilevanti nell’ambito delle antichità romane e della topografia antica. Si aggiorna regolarmente attraverso corsi specialistici presso il PIAC - Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana, è responsabile del progetto editoriale Antiche Piante di Roma (APR), è coordinatrice scientifica del progetto IRAW (Italian Research on Ancient World) e fa parte del comitato redazionale della serie internazionale SANEM (Studies on the Ancient Near East and the Mediterranean).