La storia del Polittico dell’agnello mistico – dipinto dai fratelli Hubert e Jan van Eyck nel 1432 – inizia forse realmente soltanto nel 1945, quando l’opera venne ritrovata dai famosi Monuments Men nella miniera di salgemma di Altausse, in Austria, tra i tesori artistici trafugati dai funzionari di Adolf Hitler. Il Führer auspicava per il suo Reich la creazione di un museo di Belle Arti che custodisse i più grandi capolavori di ogni secolo – il “Führermuseum” – da erigere a Linz dopo la vittoria finale. Ma il progetto andò in fumo non appena la Germania si ritrovò stretta nella morsa della controffensiva Alleata.
L’eccezionale ritrovamento del polittico fece sì che i dodici pannelli che lo compongono venissero finalmente riassemblati una volta per tutte, dopo i numerosi smembramenti e spostamenti subiti nel corso dei secoli, in quella che sembra ad oggi la posizione più accettabile, dal momento che non se ne conosce l’originaria collocazione e che alcuni studiosi hanno addirittura ipotizzato si possa trattare di un assemblaggio di opere separate. All’inizio degli anni ‘50 il dipinto venne anche sottoposto a un restauro integrale, seguito da un più accurato e recente intervento nel 2010-2011, e proprio grazie a queste operazioni si sono approfondite le speculazioni critiche sulla tavola.
L’autografia e la datazione dell’opera sono affidate, come in rari casi nell’arte dei secoli più antichi, a un’iscrizione visibile sulla cornice esterna del polittico stesso, che testimonia Hubert van Eyck – «di cui non si è mai trovato uno maggiore» – e suo fratello Jan come artefici, e il 1432 (scritto in rosso e in numeri romani) come riferimento temporale. È la prima opera firmata e datata di Jan van Eyck che ci sia giunta, ma essa dà vita allo stesso tempo a notevoli problemi di distinzione delle mani dei due fratelli, data anche la mancanza di opere certe attribuibili a Hubert, il cui stile rimase sempre meno riconoscibile rispetto a quello del fratello, affermatosi alla gloria dei posteri. Il committente dell’opera, stando sempre alle parole scritte sulla cornice, era Josse Vijd, e infatti una volta compiuta, essa venne collocata nella sua cappella all’interno dell’abbazia di San Bavone a Gand, che tuttavia per le sue anguste dimensioni alcuni critici non accettano quale luogo di destinazione originariamente deputato per un insieme così imponente (tre metri e cinquanta di altezza per quattro metri e settanta in larghezza, da aperto).
La lettura del polittico va condotta sui due registri, superiore e inferiore, e la sua interpretazione ruota attorno al tema della Redenzione, con un prologo terreno rappresentato negli sportelli esterni e un epilogo celeste sancito con la beatificazione dei Santi in Paradiso raffigurata all’interno. L’opera si presenta come uno dei più grandi capolavori dell’arte fiamminga, esempio supremo di quel naturalismo analitico dai colori luminosi e ricco di particolari tipico della cultura nordica di Quattrocento e Cinquecento.





Nei pannelli esteriori troviamo, nella parte bassa, i ritratti dei donatori (Vijd e sua moglie) ai lati dei due santi Giovanni Battista e Giovanni Evangelista, patroni della chiesa, rappresentati con la tecnica della “grisaille”, che simula il marmo di una statua. Le nicchie in cui i quattro personaggi sono collocati fungono quasi da base architettonica per la stanza in cui si svolge la scena del registro superiore, un’Annunciazione sovrastata a sua volta – nelle lunette – da figure di Profeti e Sibille con dei cartigli che predicono l’incarnazione di Dio e la futura gloria di Maria. La mimesi del reale, da sempre cifra riconoscibile della pittura fiamminga, è spinta al massimo dall’unificazione spaziale dei due piani, che viene garantita dalla convergenza delle ortogonali e dall’uniformità della luce. La stessa fusione sembra realizzarsi tra lo spazio fittizio della pittura e lo spazio dello spettatore: nella stanza dell’Annunciazione è dipinta la proiezione dell’ombra dei montanti della cornice, come se fossero investiti dalla luce proveniente dalle finestre reali della cappella dove si trovava l’opera, favorendo così la partecipazione dell’osservatore.






Alle tinte brune, scure e smorzate dei pannelli esterni fanno poi da netto contraltare i colori luminosi e brillanti delle tavole interne, introdotte concettualmente alle due estremità da quelle in cui compaiono le figure di Adamo ed Eva, a segnare un anello di congiunzione tra l’annuncio della venuta al mondo di Dio e la sua effettiva incarnazione in veste di Redentore, per liberare l’umanità dal peccato. Infatti, nella parte centrale del registro superiore interno troviamo Dio in trono, affiancato dalla Vergine e dal Battista. La costruzione di questa sezione è piuttosto insolita: nonostante nei polittici sia abitudine trovare un’unica immagine principale, qui abbiamo invece due tavole, separate orizzontalmente, e con figure di scala dimensionale diversa. La solenne monumentalità dei personaggi in alto, rigidi contro uno sfondo appiattito, contrasta fortemente con i distesi paesaggi gremiti in basso, ma il rischio tangibile di una fastidiosa disomogeneità è scongiurato grazie all’uniformità coloristica e luministica, che tuttavia non può non far pensare all’intervento delle mani diverse dei due fratelli. La maggior parte degli studiosi tende ad attribuire a Hubert l’ideazione dell’insieme e la realizzazione delle tre grandi figure in trono, più tradizionali nella resa, e a Jan l’esecuzione, se non di tutte le altre tavole, sicuramente almeno di quelle esterne e di quelle interne con i progenitori, che spiccano per qualità.
Infine, la scena corale al centro del registro inferiore – ambientata in un ampio spazio aperto verdeggiante, identificabile con il Paradiso celeste – è quella che dà il nome all’intero polittico, e raffigura l’Adorazione dell’agnello mistico da parte di Santi e Beati convenuti dai quattro angoli della Terra. È ispirata, con buona probabilità, alla liturgia di Ognissanti e ai festeggiamenti che – secondo la “Leggenda Aurea” – si tengono in quel giorno in Paradiso, come sembrano confermare anche i pannelli più sopra, con angeli musicanti le cui espressioni estremamente realistiche e dettagliate rivelano tutta la loro concentrazione e costituiscono un brano di grande naturalismo pittorico. L’agnello sopra l’altare, allineato sull’asse verticale con la colomba dello Spirito Santo e la Fontana della Vita, è il simbolo canonico del sacrificio di Gesù. Il sangue che sgorga dal suo petto dentro a un calice allude al rito dell’Eucarestia e alla possibilità di redenzione degli uomini, e chiude così idealmente il tema iniziato sui pannelli esteriori.

Giulia Spagnuolo
Storica dell’arte e curatrice in fieri, è interessata a raccontare ogni storia dalla parte degli artisti, per capire quello che c’è dietro, prima e oltre le singole opere.