LetteraturaPrimo PianoLa poesia archilochea tra eros, guerra e invettiva

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La poesia lirica greca venne sostanzialmente inaugurata da Archiloco, che rappresenta il maggiore esponente della poesia giambica, assieme a Semonide e a Ipponatte. Tale genere, che prende il nome dal metro adoperato (il giambo, appunto), venne trasformato in una forma d’arte elevata proprio da Archiloco, che lo perfezionò – secondo le ipotesi più seguite – a partire dalla tradizione di un antico culto misterico riservato alla dea Demetra. Un segno distintivo della poesia giambica è l’invettiva, spinta fino alla scurrilità, che caratterizzava i culti della fecondità. Motivo dominante è quello dello “psogos” (il biasimo), usato per mettere in ridicolo un avversario politico e screditarlo così agli occhi della gente, mescolando accuse legate alla sfera pubblica e a quella privata. L’ostentazione dell’oscenità veniva adoperata come rimedio apotropaico e propiziatorio. Gli studiosi hanno ipotizzato per il giambo una possibile etimologia derivante da Iambe, ancella di Demetra, i cui scherzi aiutarono la dea ad alleviare il dolore per la perdita dell’amata figlia.

Dell’ampia produzione archilochea sopravvivono pochi frammenti, che permettono di rintracciare i punti focali della sua poetica. Archiloco fu, in primo luogo, un poeta mercenario. Egli si definisce, nei suoi versi, «l’armigero del dio della guerra e il dolce dono delle Muse». La sua poesia diviene un incrocio di valori recuperati dal mondo guerriero, spesso scardinati e riformulati sulla base degli sconvolgimenti sociali del suo tempo (il VII secolo a.C.). L’epos omerico risulta depotenziato e rivisitato nei suoi esiti paradossali. Come non fare riferimento, a tal proposito, al celeberrimo frammento (6D.) in cui confessa, con la massima disinvoltura, di aver perso lo scudo in battaglia contro i Sai per aver salva la vita. Archiloco si fa portatore di una nuova morale contro i valori fino a quel momento ritenuti inviolabili, ai quali vengono anteposti i bisogni dell’individuo. L’io lirico si rivela nella sua umanità, mostrandosi fragile, forte, impaurito o prode.

Nei versi del poeta ritroviamo la piena trattazione della tematica erotica, colta in una sensualità sfumata e raffinata o, all’opposto, in un’esplicita crudezza. La figura femminile dominante nei versi di Archiloco è quella di Neobule, una delle figlie di Licambe. La tradizione, non priva di elementi autoschediastici, vuole la ragazza promessa al poeta e successivamente sottrattagli dal padre. Licambe e le sue figlie, in seguito alla rottura del patto, diventano bersagli di una serie di tremende invettive, sconce e denigranti. L’eros archilocheo oscilla dalla festosità conviviale alla delicatezza, dalla bramosia sensuale al desiderio quasi stremante. Alla raffinatezza della descrizione di Neobule, immortalata in un componimento con un ramo di mirto e un fiore di rosa, fa da violento contraltare, nell’epodo coloniense, la descrizione parossistica dell’amplesso sprezzante consumato a scapito della sorella della fanciulla (questa, almeno, l’ipotesi maggiormente seguita dalla critica a riguardo dell’identità dell’interlocutrice). Vale la pena di osservare che Archiloco è portatore di una concezione dell’amore che divenne dominante nella poesia erotica fino alla tarda antichità: non felicità dell’uomo, ma sofferenza che lo colpisce con la forza di una grave malattia. Esso si insinua nel cuore, riversa tenebra sugli occhi e porta via la ragione.

Il poeta traspone in versi un’anima tormentata, catturata in una riflessività tutta umana, impregnata di debolezza e smarrimento. L’io lirico si fa portavoce di una rappresentazione del tutto antieroica dell’uomo, rivoluzionando, di fatti, i più celebri motivi letterari fino a quel momento invalsi. Archiloco rende conto dell’incertezza e dello spaesamento del soldato davanti al nemico, del dolore per la perdita di un compagno d’armi, della rabbia per i tradimenti subiti. Le affermazioni di una debolezza manifesta si alternano a provocazioni taglienti, che rivelano tutte le contraddizioni del vivere quotidiano:

 

«Cuore, cuore mio, festuca in un gorgo di sciagure,
sorgi! Contro chi t’avversa tu fa’ scudo del tuo petto,
resta fermo in campo, dove i nemici agguatano.
Vincitore, non sfogare l’esultanza in pubblico;
vinto, non crollare in casa disperato a piangere.
No! gioisci d’ogni gioia, cedi ai mali, ma non troppo:
riconosci questo ritmo che governa gli uomini»

 

Archiloco diviene dunque cantore del «ritmo che governa gli uomini», svelando l’autenticità immediata dei sentimenti. Nei versi archilochei gli uomini sono perlopiù soldati in balia della fatalità e della volontà divina, perennemente in bilico su versanti scoscesi:

 

«Dagli dèi dipende tutto: spesso risollevano
chi sul suolo nero giace sotto un cumulo di guai,
spesso abbattono chi sembra reggersi incrollabile:
spalle a terra! Poi, sventure accessorie, in quantità:
una fame vagabonda, un’attonita follia»

 

La capacità di mutazione camaleontica della poesia di Archiloco si rivela anche nella forma. Dal punto di vista stilistico, infatti, si avverte un distacco netto dal mondo dell’epica: la lingua di Archiloco è molto più espressiva di quella di Omero e di Esiodo, perché non disdegna l’uso di vocaboli crudi e volgari, assieme alla rappresentazione di scene ad alto contenuto erotico o squisitamente soavi e tenui.

Anita Malagrinò Mustica

Nata a Venezia, ma costantemente in viaggio per passione e lavoro, studia Lettere Classiche a Bari. Sognando di poter dedicare la sua vita alla ricerca e all’insegnamento, ha collaborato e collabora con varie realtà editoriali, scrivendo per diverse riviste di divulgazione scientifica e culturale. Appassionata di teatro e di poesia, porta avanti numerosi progetti performativi che uniscono i due ambiti.