Se è vero che ogni opera d’arte racchiude in sé il germe dell’esperienza autobiografica del proprio autore, la pittura dell’ultimo Vincent Van Gogh costituisce la più profonda confessione dell’artista olandese. A darcene una dimostrazione è lo storico d’arte Meyer Schapiro, che nel 1946 compone un saggio monografico esemplare sul dipinto Campo di grano con volo di corvi del 1890, nel quale unendo il suo attento metodo storico-filologico all’indagine stilistica più dettagliata, analizza l’uso anomalo della prospettiva come esplicita dichiarazione del disagio psichico del pittore.
La tela venne realizzata qualche giorno prima del suicidio dell’artista, ed è singolare già per il suo formato largo e basso, che include un campo visivo ben più ampio di quello dell’occhio umano. Il senso di sconfinatezza che ne deriva è accentuato ancora di più dalla presenza di tre sentieri, che segnano delle direzioni di osservazione, ma che allo stesso tempo divergono man mano che si allontanano dal primo piano e procedono verso lo sfondo. Per l’osservatore diventa impossibile rintracciare l’orizzonte, e il rischio di disorientamento è altissimo tra le pennellate vorticose e la scomparsa delle linee guida dei sentieri, che escono lateralmente dal quadro o si perdono nel campo stesso.
Per comprendere la portata di questa prospettiva insolita, bisogna tenere a mente che essa per il pittore olandese costituiva uno strumento particolarmente significativo. Come fa notare anche lo stesso Schapiro, Van Gogh si preoccupa fin dai suoi primi disegni da principiante di dare un’impalcatura geometrica agli spazi che crea, perché avverte l’infallibile concretezza di questo mezzo rappresentativo, ma ne riconosce anche il suo aspetto soggettivo e fortemente espressivo. A differenza della prospettiva rinascimentale, che dava vita a uno spazio oggettivo, quasi scenico, distinto dall’osservatore (per quanto comunque organizzato in riferimento al suo occhio), egli inizia a concepirla come vero e proprio ponte tra il mondo esterno e la sua interiorità, come una chiave di rappresentazione del primo attraverso la seconda.

Seguendo questa concezione, egli proietta tutta la sua crisi, arrivata ormai al culmine, in Campo di grano con volo di corvi. I grandi uccelli neri costituiscono il principale elemento ansiogeno: incombono verso il primo piano, verso chi guarda il quadro – pittore compreso – e ribaltano la consueta direzione dello sguardo. La volontà di artista e di uomo di Van Gogh rimane come bloccata in questo conflitto di forze opposte, in cui gli oggetti del mondo avanzano verso di lui, ma egli non riesce a muoversi verso il mondo per afferrarlo, al punto che cerca di mantenere una forma di controllo su di esso, mettendo in atto una contromisura che lo difenda dalla totale disgregazione.
Organizza in modo incredibilmente meticoloso un ordine sistematico di colori e forme all’interno del dipinto, in base alla frequenza con cui ricorrono. L’area più ampia e più stabile è la più lontana: il cielo blu scuro di forma rettangolare che occupa l’intera larghezza della tela, una tonalità che non si ritrova in nessun’altra zona della raffigurazione. Il secondo colore, quantitativamente parlando, è il giallo dei campi di grano, che formano due triangoli capovolti. Per tre volte si trova invece il marrone rossiccio dei sentieri, e quattro sono le strisce verdi dell’erba che cresce ai bordi di queste strade lineari. Infine, si impone il nero dei corvi, una moltitudine di uccelli che si avvicinano, stilizzati dalla pennellata violenta. Se si osserva con attenzione, si scopre che i colori sono, per frequenza, inversamente proporzionali all’ampiezza delle aree che occupano. E che allo stesso modo di chi – in preda alla nevrosi – ordina e conta le cose per aggrapparsi a qualcosa di tangibile, così Van Gogh cerca la salvezza dalla sua angoscia interiore nella ripetitività delle sequenze numeriche e nella stabilità delle forme oggettive, realistiche.
Nelle lettere dell’ultimo periodo, il pittore accenna più volte alla funzione catartica che l’atto del dipingere assolveva per lui. In particolare, negli scambi epistolari con il fratello Théo, a proposito del suo ritorno ad Arles e delle nuove tele realizzate, scrive: «Sono immense distese di grano sotto un cielo inquieto e non ho avuto difficoltà nell’esprimere tristezza ed estrema solitudine». Ma prosegue aggiungendo: «Queste tele ti diranno quello che non so dire a parole, quello che trovo sano e corroborante nella campagna», ribaltando completamente la scena di turbamento descritta poco sopra.
In Campo di grano con volo di corvi la contraddizione tra il quadro stesso e gli effetti emotivi che esso genera sul pittore è più forte che mai. La violenza dei colori – accentuati al grado massimo di saturazione – e la resa instabile e agitata degli elementi naturali, che suscitano una sensazione di profonda inquietudine nell’osservatore, diventano invece confortanti nella terapia autogena attuata dall’artista. Stando all’analisi di Schapiro, le lettere mostrano che quello che Van Gogh applica alle sue tele più malinconiche e tormentate è uno schema ricorrente, attentamente calcolato. E, soprattutto, capace di dargli un senso di pace, calma e salute che egli non era in grado di trovare nel mondo reale. Il nesso innegabile tra la sua pittura e i turbamenti psichici cui era soggetto, ormai universalmente riconosciuto, fa emergere in questo caso una tendenza all’auto-osservazione e all’autocontrollo del tutto inaspettata, segno di suprema intelligenza.

Giulia Spagnuolo
Storica dell’arte e curatrice in fieri, è interessata a raccontare ogni storia dalla parte degli artisti, per capire quello che c’è dietro, prima e oltre le singole opere.