ArtePrimo PianoLa pira funebre e la libagione per i defunti

Alice Massarenti5 Novembre 2021
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Per cercare di ricostruire i riti coinvolti nella cremazione nell’Europa centrale antica si è immaginata una sequenza rituale che inizia con la morte dell’individuo e termina con il riempimento della sua tomba, attraverso un processo di risposta sociale alla morte. Essa converte un membro funzionante della società in un corpo senza vita, modificando i legami tra coloro che restano. La struttura della società è compromessa e la comunità viene spinta a risolvere la crisi. Nel procedimento, poi, sono presenti ulteriori scopi, come la cura e il soccorso per il corpo e l’anima dei defunti, nonché la comunicazione con la sfera divina.

La pira ardente divide i riti di cremazione in due fasi. La prima fase può essere ricostruita facendo riferimento all’antica cerimonia funeraria greca riportata nelle fonti classiche: il cadavere viene opportunamente disposto per la sua presentazione sulla pira, nel tentativo della comunità di ristabilire l’ordine. La selezione e la composizione degli indumenti e dei manufatti che accompagnano il corpo sulla pira consentono di mostrare caratteristiche specifiche del defunto e formano una cornice visiva per i successivi riti di trasformazione. Nella seconda fase, il fuoco cancella tutte le tracce fisiche dell’individuo e le schegge di osso sbiancato saranno al centro delle cerimonie successive, incarnando il caos provocato dal fuoco, collegamento tra il mondo umano e quello soprannaturale.

La pira assume una funzione esplicita di altare nel rituale indù e implicita nel racconto omerico della cremazione, in cui l’urna di Patroklos è avvolta nel grasso allo stesso modo in cui venivano trattati i femori della vittima sacrificale nell’antico rituale greco, o nei miti di Eracle, raffigurato su vasi attici a partire dalla fine del VI secolo a.C., e Dioniso. La pira ardente non solo costringe il passaggio attraverso le barriere tra questo e l’altro mondo, ma purifica l’impurità dal corpo e dall’anima.

Ricostruzione della deposizione del Tumulo I di Nové Košariská, Slovacchia (Pichlerová, 1969)

Tre grandi tumuli del XIII secolo a.C., appartenenti alla cultura dei Campi di Urne, e ubicati vicino ai villaggi di Čaka, Dedinka e Kolta (nella Slovacchia centrale), forniscono interessanti testimonianze. Una stretta valle separa ciascun tumulo da un piccolo insediamento vicino non fortificato. Vicino all’attuale villaggio di Čaka, sull’antica superficie bruciata all’interno di un tumulo del XIII secolo a.C. del diametro di 25 metri (purtroppo profanato), sono stati rinvenuti i resti di quello che sembrava un sepolcro, eretto sul sito della pira: la deposizione di un’armatura, uno spillo a testa globulare, un rasoio, una spada, lance gemelle, due asce, uno scalpello, uno scudo e un equipaggiamento da cavallo, una fibula, uno spillo chiodato, una cintura in bronzo battuto, un copricapo, ossa cremate, piccoli cocci e frammenti di bronzo riempivano la fossa ovale di 6 x 5 metri. Le analogie con le sepolture contemporanee sono l’armamento complesso, che comprende sempre un’ascia e a volte attrezzatura da cavallo, ma mai un carro. Non è chiaro se i gioielli femminili ornassero una sposa o se fossero simbolici. In contrasto con gli splendidi resti in metallo della tomba II/III, i corredi funerari in ceramica danno un’impressione rudimentale. I resti della pira furono raccolti in sacchi e gettati nella fossa in modo non strutturato, estendendo la violenta opera distruttrice delle fiamme.

Reperti rinvenuti nella tomba di Süttő, Ungheria (Vadász, 1983)

I vasi che giacciono nel riempimento della tomba di Čaka II/III, e altri simili, sottolineano il ruolo cruciale delle cerimonie di libagione nel rituale funerario. Durante il XIII secolo a.C., all’alba del periodo dei Campi di Urne, la deposizione di vasi svolge solo un ruolo marginale nel rituale. Durante il XII secolo a.C., grandi scenografie dominate da forme aperte mostrano che nel processo rituale della pira venivano integrate elaborate cerimonie di libagione. Il ruolo svolto dalle forme ceramiche in questo processo di trasformazione può essere spiegato attraverso le credenze dionisiache diffuse nel Mediterraneo: all’inizio del VI secolo a.C. si possono trovare esplicite immagini dionisiache nell’iconografia funeraria etrusca, a indicare che Fufluns ha avuto un ruolo nel destino del defunto. Inoltre, già dal V secolo a.C., era diffusa la pratica di incidere formule dionisiache su lamina d’oro, spesso modellata come una foglia d’edera nelle tombe degli iniziati bacchici.

Un collegamento tra il mondo dionisiaco del Mediterraneo e l’Europa centrale può essere effettuato sia attraverso Fufluns che Sabazios, un’emanazione tracia di Dioniso, abbracciato per la prima volta da culti attici rustici dal V secolo a.C., ma di radici molto più antiche. Se l’equazione tra il suo nome e la parola pannonica/dalmata/illirica “sabajam” (“birra”) è corretta, ciò minimizza le barriere tra i bevitori di birra e idromele dell’Europa centrale e il culto dionisiaco. L’uso rituale della birra è documentato nel culto germanico e, inoltre, la mitologia celtica e germanica descrivono la preparazione di liquidi in calderoni che conferiscono poteri soprannaturali e immortalità. Mentre i nomi e le forme immaginarie delle divinità degli esecutori di questi riti rimangono oscuri, c’è una chiara evidenza della loro interazione con il mondo mediterraneo nella loro iconografia funeraria.

Alice Massarenti

Nata a Mirandola, in provincia di Modena, classe ’84, si è laureata in Archeologia e storia dell’arte del vicino oriente antico e in Quaternario, Preistoria e Archeologia con una tesi in Evoluzione degli insiemi faunistici del Quaternario. Ha un’ossessione per i fossili e una famiglia che importuna costantemente con i racconti delle sue ricerche sul campo.