Nel 1892 il pubblico di New York poté assistere alla prima esibizione della Danza Serpentina di Loïe Fuller, una ragazza dell’Illinois che fin da piccola aveva solcato i teatri di varietà ma mai aveva danzato. Neppure in quell’occasione danzò “veramente”. Proprio sul crinale di ciò che è o non è la vera danza si basò il destino della Fuller. La fortuna di assistere a qualcosa di innovativo è rara ma apprezzarlo lo è ancor di più e il pubblico americano ebbe solo la prima fortuna. In America la nuova danza della Fuller rimase priva di tutele legali e di applausi perché non riconosciuta come vera danza, in quanto difettava di drammatizzazione. La sua danza non prevedeva scenografie prospettiche: la Fuller era sola sul palco, scalza e nuda sotto un’ampia veste. Con delle bacchette, come prolungamenti delle braccia, si aiutava a far vorticare sul palco la lunga tunica bianca, compiendo evoluzioni mai viste per l’epoca. La luce che interagiva con il vestito, creando effetti sublimi, sostituiva la scenografia. Nessuna storia e nessun personaggio erano rappresentati. Era una danza astratta che non aveva necessità di riprodurre qualcosa di reale.
La Fuller seguiva il flusso delle emozioni e lasciava il corpo libero di esprimersi. Non aveva mai seguito accademie o scuole, non conosceva le posizioni del balletto, quindi secondo i canoni dell’epoca non sapeva danzare. La sua danza non richiedeva qualità tecniche specifiche ma resistenza fisica e duri allenamenti per riuscire nell’impresa di far fluttuare fino a 350 metri di stoffa. Non aveva il fisico e l’età standard di una ballerina: trentenne, aveva una costituzione piuttosto robusta. Eppure sul palco aveva una grazia che seduceva.
Fu la Parigi della Belle Époque, più ricettiva a esperienze avanguardiste, a donarle il meritato successo. Sul palco del locale Folies Bergère divenne un fenomeno globale e numerose furono le imitatrici, che però rimasero delle semplici ragazze che muovevano dei bastoni. La Fuller ebbe l’acume e la curiosità di cogliere le innovazioni dell’epoca e farne arte. Guardò con grande interesse al Simbolismo, al Liberty, ai primi studi psicoanalitici, agli esperimenti di Camille Flammarion sull’influenza dei colori sugli esseri viventi, all’invenzione dell’elettricità e delle prime sostanze radioattive. Fu venerata da Auguste Rodin, Henri de Toulouse-Lautrec, Stéphane Mallarmé ed ebbe proficui scambi con i coniugi Curie. Parigi era infatti terreno fertile per nuove esperienze e la sua danza crebbe dentro uno stimolante contesto culturale, nel quale le influenze erano molteplici e reciproche.
In tutto ciò, riuscì anche a portare avanti autonomamente gli studi sui sali fosforescenti che arrivò a distribuire sui vestiti di scena, creando l’effetto di una costellazione. Una testimonianza dell’epoca ci aiuta a entrare meglio nelle atmosfere della sua danza: «La luce cade e muore nel momento in cui si sarebbe pensato di vedere cadere e morire l’essere svolazzante che lottava con essa, sventolando le braccia disperate. Dentro l’oscurità regnante vediamo, con stupore, una forma bluastra di uccello notturno errante, brancolante all’estremità delle sue ali spezzate, che diventa un cerchio, un’ellisse, un fiore, un calice, una farfalla, un uccello colossale, uno schizzo multiplo e rapido di tutte le forme di flora e fauna». Come emerge da questa descrizione, la vera danzatrice era la relazione tra il costume e le luci colorate: il corpo della Fuller, su azione di questi due comprimari, si trasfigurava fino ad assumere le forme più varie. A tal fine brevettò gelatine colorate e grossi proiettori muniti di vetrini colorati e sperimentò diverse sorgenti di luce. Ruppe con la tradizionale gerarchia degli elementi scenici, conferendo loro un ruolo paritario. La stessa musica, unico elemento sonoro dei suoi spettacoli, aveva una dimensione visiva perché contribuiva a stimolare l’immaginazione del pubblico.
La danza della Fuller creava immagini incorporee e indefinite che, data la loro fuggevolezza, obbligavano lo spettatore a partecipare con la sua immaginazione alla costruzione dello spettacolo. La Fuller sul palco era un’apparizione, un essere evanescente e le sue performance così suggestive ed evocative da ipnotizzare intere platee. Il virtuosismo era dunque non nelle capacità tecniche del corpo ma in tutto l’impianto scenotecnico di cui Loïe curava i risvolti pratici e manageriali; dirigeva più di 20 tecnici a cui impartiva minuziose e dettagliate istruzioni, frutto di un lungo e attento studio. Aveva una personalità sorprendente e una piena consapevolezza delle sue esibizioni, di cui ideava e seguiva ogni aspetto. Se ad oggi non si fa giustamente difficoltà a considerare danza la danza contemporanea, lo dobbiamo a questa ragazza cresciuta nella prateria americana che fu una pioniera nel suo campo e contribuì ad ampliare il concetto stesso di cosa fosse danzare.

Giada Oliva
Romana, classe '85, laureata al Dams in Storia del teatro italiano. Ha studiato per diversi anni teatro e danza contemporanea. Particolarmente curiosa, ama essere una cacciatrice di esperienze e di nuovi punti di vista.