CinemaPrimo PianoLa matrice dell’illusione: “C’era una volta a… Hollywood” di Quentin Tarantino

Mattia Pescitelli25 Settembre 2019
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1969: un anno che difficilmente può essere cancellato dalla storia collettiva contemporanea. È l’anno dell’allunaggio. L’anno del primo volo Concorde. L’anno in cui ha inizio il primo mandato Nixon. L’anno di Easy Rider. L’anno di Woodstock. Ma anche l’anno del sacrificio di Jan Palach. L’anno delle proteste in Piazza Tienanmen. L’ultimo anno di un decennio che ha avuto molto da dire e le cui ripercussioni continuano tutt’oggi a rombare nelle pieghe della contemporaneità. Anni di innovazione, ma anche anni di distruzione. Anni di “boom”, in tutti i sensi.

I giovani morivano. Nel fango di foreste esotiche, ma in misura altrettanto significativa anche per le strade delle ruggenti metropoli americane, sommerse dal vizio e dagli eccessi. Sotto il velo ingannatore del benessere, attendeva – celato – il futuro. Chi se ne era accorto, non venne ascoltato. I restanti continuarono a vivere quei momenti di apparente stabilità. Alla fine del decennio, come un esattore, il futuro ha bussato alla porta. E altro non poteva attendere se non un nuovo decennio, scosso da contraddizioni ancora più marcate. Proprio questo “passaggio di testimone” è il protagonista delle vicende di C’era una volta a… Hollywood (Once Upon a Time in… Hollywood), nono film di Quentin Tarantino.

Un 1969, quello del regista di pellicole che hanno segnato il cinema americano degli ultimi decenni, personale e stravagante. Troviamo tutto quello che ci si potrebbe aspettare da una Los Angeles degli anni ’60, ma ciò che stupisce maggiormente è “l’odore”. Tarantino è riuscito a ricreare le atmosfere, le vedute, le sensazioni che si potevano provare (o almeno quelle che le testimonianze ci lasciano immaginare) in un luogo così particolare e in piena trasformazione come quello della Hollywood di fine anni ’60. È evidente che l’autore abbia voluto omaggiare quegli anni che, ancora bambino, tanto gli hanno insegnato e offerto. E, come il migliore degli illusionisti, il cineasta manipola lo spettatore, celando la verità esattamente dinanzi i suoi occhi.

Infatti, quel 1969 è stato un anno difficile per gli Stati Uniti, non solo a causa dei conflitti internazionali nei quali erano coinvolti, ma anche per minacce molto più tangibili, situate nel “fronte interno”. Tra queste, una delle pagine più oscure della storia americana: i terribili eccidi della Manson’s Family, setta religiosa capitanata dal famigerato Charles Manson. Tra le loro vittime, c’è anche Sharon Tate, una delle attrici in ascesa a Hollywood in quegli anni. Ed è qui che Tarantino inganna lo spettatore (con l’ausilio di una campagna di marketing abilmente orchestrata). Infatti, oltre a Rick Dalton e Cliff Booth (i due protagonisti interpretati dai sempreverdi Leonardo DiCaprio e Brad Pitt), troviamo a ricoprire un ruolo di spicco proprio quella Sharon Tate (Margot Robbie) che in quel 9 agosto 1969 fu brutalmente assassinata, insieme ad altri tre amici, da tre membri della setta di Manson nella residenza di Roman Polański, suo marito, dal quale aspettava un bambino.

Allora, appena vediamo Charles Manson nel trailer del film, non possiamo fare a meno di pensare che dietro quella campagna di marketing così triviale si nasconda qualcosa di molto più oscuro, quel Tarantino sanguinario che conosciamo fin troppo bene. E, in un certo senso, è così. Infatti, la natura del regista viene allo scoperto sul finale del film, con una scena di una violenza inaudita, ancora più fisica e realistica di quelle che ci aveva offerto in passato, dove il sangue scorre e dove le teste si spaccano.

Tuttavia, Tarantino conosce il suo pubblico e sa che per la maggior parte è composto da cinefili incalliti come lui, attenti al minimo dettaglio, maniacali. Quindi, decide che – per ingannare lo spettatore – è necessario cambiare il corso della Storia per come si è svolta nella realtà dei fatti. D’altronde, già ci ha mostrato una spiccata propensione a riscrivere il passato con un film come Bastardi senza gloria, dove i nazisti diventano (in tutti i sensi) carne da macello dinanzi al dispositivo cinematografico. È come se, con i suoi film, volesse ripagare con la stessa moneta (o peggio) coloro che, un tempo, hanno commesso terribili atrocità che, inevitabilmente, hanno segnato l’uomo moderno. Se prima era toccato ai nazisti (dei quali si vendica, anche in questa pellicola, con una buona dose di fiamme), ora è il turno della Famiglia Manson.

Ed è allora, con quel finale, che scopriamo che ciò a cui abbiamo assistito non è altro che la sua versione della Storia. Una sua personale e intima reinterpretazione di eventi che, nel suo universo, non hanno diritto di esistere per come si sono svolti realmente. E lui, tuttavia, fa credere fino all’ultimo agli spettatori che l’esplosione di violenza che sta per giungere inevitabile si atterrà al normale svolgimento delle tragiche vicende di quella notte del 9 agosto. Prima di entrare in sala, tutti hanno quel pensiero per la testa; quella convinzione, secondo la quale Tarantino – prima o poi – mostrerà quegli eventi in tutta la loro violenza. L’intero film è circondato da quell’alone di pericolo incombente, con l’ombra di Charles Manson che – con l’avanzare della pellicola – diviene sempre più palpabile (seppure mai veramente nominato, se non con l’appellativo di “Charlie”).

Per illudere maggiormente lo spettatore, Tarantino inserisce dettagli che portano in quell’unica e brutale direzione: l’inquadratura prolungata sul cartello stradale di Cielo Drive (la via dove si trovava l’abitazione di Polański); i giorni, le ore, i minuti scanditi con ordine, inarrestabili; la gravidanza avanzata della Tate; i tre amici che le fanno compagnia mentre Polański è a Londra; la visita improvvisa di Manson alla loro casa; lo sguardo inquietante col quale guarda la giovane attrice; i seguaci del culto appostati sotto casa sua a mezzanotte di quel famigerato 9 agosto. Tutti elementi che fanno crescere la tensione, che sviano lo spettatore verso idee oscure, verso la convinzione che qualcosa di brutto accadrà, prima o poi. Che il male verrà rilasciato in tutta la sua furia omicida. Invece, di colpo, la fantasia e l’illusione cinematografica irrompono sulla scena: Rick Dalton sbatte una mano sul cofano di quell’auto che staziona di fronte al cancello dell’abitazione della Tate e inizia a sbraitare, ubriaco, costringendo gli intrusi a battere in ritirata, almeno per il momento. È in quel preciso istante che la finzione subentra alla realtà. Interviene prontamente a mettere i bastoni tra le ruote alla vera Storia. La fa sua prigioniera e ci si intrattiene, in uno dei giochi più brutali, più vendicativi che possano esistere.

In tutto il film, lo squilibrato capo della setta appare in camera durante una sola scena, per giunta nei primi minuti. Una manciata di battute. Nient’altro. Non viene fatto neanche il nome. Quel personaggio che si pensava fosse cruciale per lo svolgimento del film, in realtà, appare nello stesso numero di inquadrature con il quale era stato pubblicizzato durante la campagna di marketing (anzi, alcune scene sono state perfino tagliate). Ed è proprio con quel massacro finale, con quella inarrestabile esplosione di violenza avvenuta nella “casa sbagliata”, che l’inganno, l’illusione che Tarantino ha somministrato agli spettatori si fanno del tutto evidenti.

Proprio l’illusione sembra essere il tema ricorrente del film. Oltre a quella che il regista ha adoperato contro lo spettatore, anche l’illusione cinematografica, più volte tirata in ballo dalla pellicola attraverso il continuo trovarsi dietro le quinte di quella Hollywood che tanto ha dato (e negato) al cinema, portando a compimento – di fatto – la distruzione della classicità. Quella Hollywood che si stava rinnovando, che stava trovando nuovi volti, nuovi temi, nuovi modi di comunicare con il pubblico. E, in questo caso, entra in gioco un’altra illusione: quella del fallimento, della “morte professionale”.

Una condizione provata dal protagonista, Rick Dalton, un attore – a sua detta – in declino, destinato a essere dimenticato. Un pensiero, questo, ricorrente in molte star della “vecchia Hollywood”, quella classica, che dovettero fare i conti con il tempo che passava inesorabilmente, conducendo le loro vite e le loro carriere verso un inevitabile “viale del tramonto”. Perso nella sua ossessione, Dalton non si accorge di essere apprezzato da chiunque lo circondi. Riesce a capirlo solo nel momento in cui glielo dicono di persona, come se fosse alla continua ricerca di un riscontro verbale, un’approvazione diretta, impedita dal dispositivo cinematografico. Rick, seppur “vivendo attraverso lo schermo”, è un personaggio estremamente materiale, emotivo. Ha bisogno dell’interazione fisica per potersi sentire reale, apprezzato. Ha bisogno di liberarsi dalla prigionia dell’inquadratura per avere la certezza di essere ancora se stesso.

C’era una volta a… Hollywood è un film che parla della morte del cinema classico. Di quel cinema, fatto di budget altissimi e qualità visiva impeccabile, che fa fatica a rimanere a galla in un oceano di cambiamenti generazionali. Un cinema creativo, basato sul lieto fine, sul trionfo del Bene sul Male, sui buoni sentimenti, su un’etica positiva. Un cinema che in quegli anni spariva, soppiantato – proprio come quegli attori della “vecchia guardia” – da un futuro carico di fardelli. Questo è ciò che Tarantino racconta, pur affrontando l’argomento in maniera indiretta, senza tradire le sue origini e i canoni tipici della sua estetica, che – fin dal principio – ha fatto leva su una violenza spesso (ma non sempre) ironica. Il regista rende omaggio a tutti i suoi maestri, a tutti i film che lo hanno ispirato e che hanno contribuito alla fine della classicità, momento della cinematografia americana che lui – più per i valori che rappresentava, che per la cifra stilistica espressa – ha sempre disprezzato.

Mattia Pescitelli

Nato a Roma, è attualmente studente di Cinema, Televisione e Nuovi Media in DAMS presso l’Università degli Studi Roma Tre. Oltre all’amore per il cinema, prova anche un profondo interesse per il mondo della fotografia e delle Arti nel loro insieme, apprezzando quando questi entrano in collisione e si amalgamano per diventare un unico ibrido.