CinemaPrimo Piano“La maschera del demonio”di Mario Bava: 60 anni di un capolavoro senza tempo

Alessandro Amato25 Febbraio 2020
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«Nel XVII secolo si scatenò, spietata e violenta, la lotta contro quegli esseri mostruosi e assetati di sangue che le cronache del tempo chiamavano vampiri». Così recita una voce narrante nel celebre prologo de La maschera del demonio (1960) di Mario Bava. Già nei primi 15 secondi, il film mette sul tavolo le carte che si appresta a rimescolare: un immaginario che fa riferimento soprattutto alla letteratura gotica ottocentesca, ai trattati e alle leggende popolari. L’idea di mettere in scena una storia del terrore – il film adatta infatti, seppur molto liberamente, il racconto Vij di Nikolaj Gogol’, datato 1835 – nasce sulla scia del successo dei recenti horror della britannica Hammer, in particolare Dracula (1958) di Terence Fisher, e forse ancora più di essi si ispira alla visionarietà espressionista dei classici della Universal degli anni Trenta. Guardandolo vien da pensare soprattutto a Frankenstein (1931) di James Whale, perché anch’esso era girato da un direttore della fotografia e anch’esso alla sua uscita aveva suscitato in critica e pubblico un notevole scalpore.

La casa di produzione Galatea offre a Bava l’occasione di esordire dietro la macchina da presa anche un po’ per risarcirlo di alcune regie non accreditate e per diverse soluzioni trovate all’ultimo. È notevole, a titolo d’esempio, il suo intervento per concludere in corsa le riprese di un film come Ercole e la regina di Lidia (1959), firmato poi dal solo Pietro Francisci. Oltretutto, Bava al peplum tornerà quasi subito per lasciare la propria impronta con Ercole al centro della terra (1961), notevolmente sottovalutato. La sceneggiatura de La maschera del demonio viene affidata a un altro mestierante, Ennio De Concini, che di generi in carriera ne ha affrontati tantissimi: dal comico neorealista Totò e i re di Roma (1952) di Mario Monicelli e Steno al melodrammatico La risaia (1956) di Raffaello Matarazzo, persino vincendo l’Oscar per Divorzio all’italiana (1961) di Pietro Germi e giungendo addirittura ai primordi della fiction televisiva col popolarissimo poliziesco La piovra (1984-2001).

Insomma, le premesse per un lavoro rivoluzionario ci sono tutte. La maschera del demonio si presenta come un’operazione classicista e moderna insieme, poiché rielabora un insieme di elementi spettacolari portati tuttavia all’eccesso dalla personale visione dell’autore sanremese. Infatti, alcune scelte narrative e rappresentative non hanno precedenti, come quella di mostrare in primissimo piano la marchiatura a fuoco della pelle della strega nella sequenza d’apertura. Qui risalta la capacità artigianale di Bava nel costruire immagini credibili elaborando materiale che potremmo definire di scarto. Per tutti, valga l’utilizzo della polenta per fare la lava infernale sotto i piedi del figlio di Zeus nel film mitologico di cui sopra. Mentre altrove è la forza del montaggio a costruire l’effetto finale. A questo riguardo, va segnalato che alla scrittura contribuisce anche il montatore Mario Serandrei, noto per aver collaborato assiduamente con Luchino Visconti durante e dopo il conflitto mondiale.

Ma La maschera del demonio è celebre anche per aver portato alla ribalta la sua protagonista, Barbara Steele, che da questo momento – anche grazie al successivo Il pozzo e il pendolo (1961) di Roger Corman – diverrà la diva indiscussa del gotico nostrano e internazionale. Intorno a lei facce molto ben selezionate, come i locali Andrea Checchi e Ivo Garrani e l’inglese John Richardson. Il volto contratto e dolente dell’attrice è presto diventato il simbolo di un nuovo modo di concepire l’orrore, più umano e meno concettuale, legato alle specifiche caratteristiche della regia di Bava che cineasti di ogni sorta imiteranno allo sfinimento. Ma al di là della banale e ridondante riproposizione del modello, la pellicola lascia un segno che col tempo risalta su più generazioni e su molti e diversi registi. Fra gli estimatori possiamo ricordare Martin Scorsese, Francis Ford Coppola, Joe Dante, John Landis, Tim Burton e Quentin Tarantino. Una vera e propria eredità.

Una versione censurata e ridoppiata viene immediatamente diffusa negli Stati Uniti (col titolo Black Sunday) dalla American International Pictures, distribuita in coppia con La piccola bottega degli orrori (1960) di Corman e adattata alle leggi e alla sensibilità del Paese. Nello specifico, viene tagliata proprio quell’immagine della schiena marchiata a fuoco mentre altrove, attraverso la traduzione dei dialoghi, il fratello di Katia diventa inspiegabilmente un servo di casa Vajda. La critica italiana ignora completamente l’uscita nei cinema de La maschera del demonio, mentre all’estero e in particolare in Francia il film viene quasi subito osannato da un pubblico che ha però esperienza di un cinema di genere ben più stratificato di quello presente nelle nostre sale alla fine degli anni Cinquanta. Inoltre, nel 1989 il figlio Lamberto Bava lo omaggia realizzando un discutibile remake televisivo che porta lo stesso titolo, ma presenta differenze di plot e di struttura.

Alessandro Amato

Nato a Milano, conclude gli studi a Torino, dove continua a lavorare nell'ambito critico e festivaliero. Collabora con "A.I.A.C.E." e il magazine "Sentieri Selvaggi". Dirige rassegne di cortometraggi e cura eventi per la valorizzazione del cinema italiano. Quando capita è anche autore di sceneggiature per la casa di produzione indipendente "Ordinary Frames", di cui è co-fondatore.