I dolori del giovane Werther è il romanzo che nel 1774 rese Johann Wolfgang von Goethe, all’epoca solo venticinquenne, uno dei più grandi scrittori europei. Il successo dell’opera fu eclatante, addirittura in maniera quasi fastidiosa nei confronti dello stesso suo autore, che in Viaggio in Italia commenterà così la “morbosità” del suo pubblico: «Qui mi importunano con le traduzioni del mio Werther, me le mostrano e chiedono quale sia la migliore e se la storia sia vera! È una sciagura che mi perseguiterebbe anche in India».
Chiedevano se la storia fosse vera perché in effetti fu proprio la cronaca della triste fine del protagonista che più di tutto colpì i lettori del tempo. L’incredibile popolarità del romanzo fu dovuta in gran parte alla narrazione di un fatto di suicidio realmente accaduto, ovvero quello del giovane intellettuale Carl Wilhelm Jerusalem. Non solo si riconobbe nella trama una notizia che aveva provocato, due anni prima, enorme scalpore, ma si ebbe anche, nel periodo successivo, una forte risonanza nella moda e nel commercio del tempo: si produssero infatti stampe e oggetti decorati con scene tratte dal romanzo. Molti giovani iniziarono anche a imitare l’abbigliamento di Werther descritto da Goethe (corrispondente anche a quello di Jerusalem nel momento del suicidio), ovvero frac azzurro e panciotto giallo; l’emulazione si spinse anche tristemente oltre, nel momento in cui si manifestarono persino casi di suicidio commessi in maniera analoga: un colpo di pistola alla tempia.
Nel Libro XIII di Dichtung und Wahrheit (Poesia e verità, 1812-13) Goethe dirà infatti di come questa sua opera, scritta «quasi inconsciamente, come un sonnambulo», lo abbia fatto sentire «sollevato e rasserenato per avere trasformato la realtà in poesia» ma di come abbia però provocato un sovvertimento di tale efficace e vitale procedimento. I dolori del giovane Werther, infatti, oltre a essere stati i dolori del giovane Jerusalem, perché ispirati alla sua vicenda, sono stati anche quelli del giovane Goethe. Il poeta ha infatti sofferto dello stesso malessere del protagonista del suo romanzo, ovvero di quella malattia della modernità che è il nichilismo: ciò che viene rivelato a Werther-Goethe, e che era stato precedentemente rivelato a Jerusalem, è la cruda consapevolezza che il vivere corrisponda all’amare e ineluttabilmente alla distruzione.
Werther è l’uomo senza più morale della cultura moderna, votato al piacere e alla sensualità e che per questo, scriverà Kierkegaard, «muore ogni giorno», perché dedito all’inseguimento della bellezza dell’istante che va inevitabilmente dissolvendosi. La vita del protagonista dell’opera, così come quella dell’uomo moderno, si riassume in una «Krankheit zum Tode» («malattia mortale»), espressione poi usata da Kierkegaard per una sua opera (La malattia mortale, 1848). Tale locuzione è tratta dalla Lettera del 12 agosto, in cui Werther e Albert discutono animatamente attorno alla questione suicidio, contrapponendo due diverse visioni in merito. Se per il secondo si tratta di un tangibile segno di debolezza, per il primo non è altro che una manifestazione di una malattia, pertanto chi decide di togliersi la vita non è da considerarsi vile, «così come non sarebbe lecito chiamare vile uno che muore di una febbre maligna». La “Krankheit zum Tode” è allora una manifestazione dei limiti della natura umana, la quale «può sopportare la gioia, il dolore, le sofferenze fino a un certo punto e crolla non appena questo punto sia superato».
Quello che Werther compie è quindi una sorta di solitario immolarsi, un sacrificio rivolto esclusivamente alla salda certezza che questa malattia mortale conduca a un salvifico nulla: «tutto il mio essere trema fra l’essere e il non essere» (Lettera del 15 novembre), enunciazione di ovvia impronta shakespeariana.
La parabola wertheriana può essere considerata quasi come una narrazione agiografica, come se fossimo al cospetto della storia di un martirio. Goethe non manca di far notare questa possibile chiave interpretativa, empiendo la Lettera del 15 novembre di un rivelante motivo cristologico: «Non lo dice persino il Figlio di Dio che intorno a lui ci saranno coloro che gli sono stati dati dal Padre? E se io non gli fossi stato dato? Se il padre mi volesse trattenere presso di sé, come mi dice il mio cuore?», si chiede Werther, in un momento che pare quasi un’appassionata vocazione religiosa.
Se Jerusalem ha trovato nella morte la salvezza ambita, lo stesso non è per Werther: Goethe attinge in maniera molto fedele dalla lettera che l’amico Kestner gli aveva scritto descrivendogli le circostanze della morte del ragazzo. Un dettaglio è però assente, ovvero «Das Kreuz ward voraus getragen» («lo precedeva una croce»): il funerale di Jerusalem è compiuto con solennità e sacralità. Il finale del Werther, invece, nel raccontare le esequie del giovane, fa risuonare le ultime parole come un funereo rintrono: «Nessun prete lo accompagnò». Il sacrificio senza redenzione è l’emblema del wertherismo.

Lucia Cambria
Siciliana, laureata in Lingue e letterature straniere e in Lingue moderne, letterature e traduzione. Particolare predilezione per la poesia romantica inglese e per la comparatistica. Traduttrice di prosa e versi, nel 2020 ha trasposto in italiano per Arbor Sapientiae il romanzo "L’ultimo uomo" di Mary Shelley.