Non è affatto azzardato affermare che bisognerebbe imparare l’inglese anche solo per leggere William Shakespeare in lingua. Di questo straordinario drammaturgo non sappiamo molto; non ne conosciamo neppure precisamente il volto, tanto è avvolta nel mistero la sua figura. E la domanda più frequente che si fa ogni lettore, profano e non, è proprio la seguente: come ha fatto un uomo solo a scrivere delle opere così belle e importanti?
Effettivamente, Shakespeare non era da solo. Poteva contare su un cast di attori, cui adattava di volta in volta i personaggi, e su una mente registica; sapeva bene il ruolo da affidare a ciascuno. Da grande scrittore, conosceva i gusti del pubblico, cosa lo faceva restare a bocca spalancata e soprattutto cosa non lo faceva mai annoiare. E in oltre tre ore di spettacolo non è certo semplice non sbadigliare e stufarsi. Per questo, il drammaturgo si preoccupava di utilizzare un linguaggio che arrivasse a tutti i ceti, inserendo sempre degli intermezzi comici, oltre a una serie di rifermenti (perlopiù indiretti) alla contemporaneità. Così, chiunque poteva seguire un suo spettacolo. E che trame, che frasi!
A tal proposito, non vi era un copione fisso. C’era un canovaccio cui gli attori erano tenuti ad attenersi, ma che potevano cambiare a proprio piacimento. Non mancavano monologhi interamente improvvisati sul palco, da cui Shakespeare poteva prendere spunto. Tanto che il lavoro, le grandi opere dello scrittore inglese, erano quasi un prodotto collettivo, cui erano invitati a partecipare pubblico, attori e il poeta stesso. Spesso i monologhi migliori di Shakespeare sono scritti in versi, perché recitati da nobili, da re, da alte personalità, e il verso sottolinea il lirismo delle loro esistenze. C’è, però, un monologo straordinario – tra i più belli mai scritti – che è in prosa, e che viene qui riportato nella traduzione di Alessandro Serpieri, tratto da Il mercante di Venezia.
Salerio domanda al mercante ebreo il perché voglia proprio una libbra di carne di Antonio, quale obbligazione in caso non riesca a restituire il denaro prestato. Cosa potrebbe mai farsene di una libbra di carne? Shylock così gli risponde: «A far da esca ai pesci. Non dovesse nutrire altro, nutrirà la mia vendetta. Mi ha sempre danneggiato, m’ha impedito di farmi un mezzo milione, ha riso delle mie perdite, deriso i miei guadagni, offeso la mia nazione, ostacolato i miei affari, raffreddato i miei amici, infiammato i miei nemici; e per quale ragione? Io sono un ebreo. Non ha occhi un ebreo? Non ha mani, un ebreo, organi, membra, sensi, affetti, passione? Non è nutrito dallo stesso cibo, ferito dalle stesse armi, assoggettato alle stesse malattie, curato dagli stessi rimedi, riscaldato e raffreddato dallo stesso inverno e dalla stessa estate? Se ci pungete, non sanguiniamo? Se ci fate il solletico, non ridiamo? Se ci avvelenate, non moriamo? E se ci fate torto, non dovremmo noi vendicarci? Se siamo come voi per il resto, vogliamo assomigliarvi anche in questo».
Un monologo stupefacente, che potrebbe muovere a commozione chiunque (e, per questo, pericoloso). Potrebbe recitarlo l’essere più spregevole al mondo, declinandolo secondo le sue esigenze, e spingere così chiunque lo ascolti a provare pietà o compassione per la sua sorte. E non è un caso, certamente, che un testo così potente e suggestivo venga recitato proprio da Shylock, il cattivo per antonomasia (l’usuraio ebreo, lo spietato che brama vendetta), ma che in verità sembra essere il risultato di una società calcolatrice e manipolatoria. Al punto da far ritenere che questo cattivo sanguinario in realtà sia il personaggio più autentico dell’intera commedia, dove tutto è mosso dal desiderio di possesso attraverso il denaro, vero male che tormenta gli uomini.
La Venezia di cui parla Shakespeare non corrispondeva alla realtà: lì un ebreo era rispettato, stimato e perfettamente inglobato nelle dinamiche sociali. A Londra, invece, gli ebrei erano considerati accumulatori di ricchezze e persone senza sentimenti. Giudicati esclusivamente in base al loro denaro, venivano tassati e vessati. Shakespeare è a questo che si attiene, mostrando tra le righe la verità della società a lui contemporanea, immaginando un mondo in cui anche un ebreo può sanguinare, ridere, morire e soffrire come qualunque altra persona.

Adele Porzia
Nata in provincia di Bari, in quel del ’94, si è laureata in Filologia Classica e ha proseguito i suoi studi in Scienze dello Spettacolo. Giornalista pubblicista, ha una smodata passione per tutto quello che riguarda letteratura, teatro e cinema, tanto che non cessa mai di studiarli e approfondirli.