In uno dei saggi contenuti in Saggi di letteratura popolare (1943), Paolo Toschi – accademico e studioso di letteratura folkloristica – parla del rapporto tra Gabriele d’Annunzio e la tradizioni popolari. Ciò che lo studioso delinea è una cornice all’interno della quale si evince come lo scrittore abbia incluso nella propria opera elementi tratti dalla tradizione popolare. Toschi la definisce vera e propria religione. Non si parla, pertanto, di una semplice manifestazione regionalistica, ma di un credo ben definito.
Ispirandosi a canti non soltanto dell’Abruzzo – la sua regione d’origine – ma anche toscani, siciliani e sardi, d’Annunzio ha fatto sì che si percepisse quanto poetici fossero gli oggetti dell’arte da lui definita “popolesca”. Il luogo di provenienza ebbe profondo impatto sulla sua ricezione della tradizione, ma anche – ovviamente – il periodo nel quale visse, soprattutto per il verismo, la corrente letteraria coeva alla sua formazione. Come è noto, la letteratura verista – sorta dal francese naturalismo – prediligeva una fedele adesione alla realtà, osservata nel modo più realistico e oggettivo possibile.
Se in tutta Europa fu il movimento romantico a sviluppare l’interesse nei confronti del folklore, in Italia questo essenziale compito fu promosso proprio dal verismo: comprendendo il folklore tutti quegli elementi della tradizione popolare, e quindi necessariamente legati al “popolo”, costituisce naturale conseguenza il fatto che il verismo abbia ritratto proprio questi aspetti, quelli della «spregiudicata rappresentazione della vita», come li definisce Toschi.
Il primo d’Annunzio è costellato di materiale verista, il quale è servito allo scrittore per aggiungere quel tocco di colore in più, quasi ornamento “necessario” al tempo letterario che stava vivendo. Più tardi si accorse invece che nel “popolesco”, percepito come elementare e semplice, si trova una valenza universale e condivisibile. Questa consapevolezza è presente nella raccolta Novelle della Pescara (1902), opera rilevante anche dal punto di vista linguistico in quanto i dialoghi dei personaggi sono scritti in dialetto abruzzese. Ma dove si compie maggiormente la parabola “popolare” è nel romanzo Il trionfo della morte (1894) e nel dramma La figlia di Jorio (1904). In quest’ultima, in particolare, la tradizione «è la ragione stessa dell’opera» (Toschi) e questa è la sola legge di vita che regola tutto il corso della tragedia.
La sua trama venne realizzata con la collaborazione del pittore Francesco Paolo Michetti al quale d’Annunzio in una lettera scrive:
Tutto è nuovo in questa tragedia e semplice. Tutto è violento e tutto è pacato nello stesso tempo. L’uomo primitivo, nella natura immutabile, parla il linguaggio delle passioni elementari… E qualcosa di omerico si diffonde su certe scene di dolore. Per rappresentare una tale tragedia son necessari attori vergini, pieni di vita raccolta. Perché qui tutto è canto e mimica… Bisogna assolutamente rifiutare ogni falsità teatrale.
Gli attori devono quindi essere pronti a dissipare sul palcoscenico quella vita della quale sono imbevuti e «rifiutare ogni falsità teatrale» è il primo comandamento di questa religione: un realismo estremo, più vero della realtà, deve trasporsi nella carne e nelle ossa di quelli che non sono più – allora – attori, ma “semplici” – nel senso folkloristico del temine – uomini.
Nel dramma si mischiano elementi che evocano credenze, usi e costumi, i quali risvegliano negli spettatori quei legami indissolubili con le origini e con l’ancestrale. La vicenda principia infatti con la celebrazione di una festa nuziale – già questo tipico tema appartenente alla tradizione popolare – celebrata tra riti rurali e pagani; qui fa la propria comparsa Mila che è – appunto – la figlia di Iorio, un mago: questa, dopo una serie di peripezie, finirà sul rogo addossandosi colpe mai commesse e autoproclamandosi strega.
D’Annunzio si servì in questo dramma di un patrimonio folklorico immenso, a partire dal linguaggio utilizzato fino a giungere ai personaggi, ai proverbi e ai canti in esso inclusi: proprio questi, vive testimonianze della poesia popolare, donano all’opera un sottofondo di primitività. Si prenda ad esempio la funerea litania con cui si apre il terzo atto dopo la morte di Lazaro, ucciso dal figlio Aligi:
Iesu Cristo, Iesu Cristo,
l’hai possuto sofferire!
D’esta morte scellerata
dovìa Lazaro morire!
S’è veduto a vetta a vetta
tutto, ’l monte isbigottire.
S’è veduto in ciel lo sole
la sua faccia ricuoprire.
La materia “grezza” della tradizione è raffinata e forgiata da d’Annunzio o, per utilizzare la metafora adoperata da Toschi, si serve della tradizione come di un pozzo inesauribile dal quale «attinge, è vero, a piene mani, anche, ma come sa poi trasformare in vino di poesia l’acqua delle sue “fonti”!».

Lucia Cambria
Siciliana, laureata in Lingue e letterature straniere e in Lingue moderne, letterature e traduzione. Particolare predilezione per la poesia romantica inglese e per la comparatistica. Traduttrice di prosa e versi, nel 2020 ha trasposto in italiano per Arbor Sapientiae il romanzo "L’ultimo uomo" di Mary Shelley.