Al Teatro dei Dioscuri di Roma, vicino al Quirinale, si può visitare – fino a ottobre e con ingresso gratuito – una mostra dedicata a Massimo Troisi, la cui scomparsa è avvenuta 25 anni fa. L’esposizione rende omaggio all’anima poetica di un grande istrione, la quale trova espressione in tutte le sue manifestazioni artistiche, dal teatro al cinema. Si tratta di una mostra interattiva con schermi touchscreen, moltissime fotografie personali e pubbliche e un’installazione omaggio di Michelangelo Bastioni in cui vengono proiettati su un contenitore in vetro sketch teatrali della “Smorfia”, il nome dello storico gruppo teatrale di cui Troisi fece parte. Ciò che colpisce da subito è il soffitto a patchwork con effetto a volta affrescata realizzato con immagini, stralci di frasi, titoli e articoli di giornale, molto colorato ed esemplificativo dell’animo stratificato di Troisi.
I tratti di un carattere timido e schivo, che determineranno una comicità non invadente, sono rintracciabili fin dalla sua nascita avvenuta a San Giorgio a Cremano. Troisi vive un’infanzia affollata di parenti, cosa che gli trasmette un grande senso di comunità ma gli fa patire qualsiasi momento vissuto in solitudine. Un precoce problema al cuore lo rende fragile e a 18 anni il forte dolore per la morte della madre fa di lui un orfano perenne, sempre in cerca di adozione. Nel teatro, Troisi afferma di trovare forza e sicurezza in sé. Gli inizi sono al Centro Teatro Spazio nel quartiere di nascita, un garage in cui diversi studenti mettono in scena le farse di Viviani, Petito e Scarpetta. Una grande palestra perché, come racconta Troisi, lavorare sulla farsa significa avere solo qualche foglietto in cui a un certo punto c’è scritto “lazzi” e a quel punto è necessario affidarsi all’ improvvisazione e si mette dentro di tutto.
Il primo gruppo teatrale si chiama “Rh negativo” ma ben presto inizia a sfaldarsi e rimangono solo in tre: Massimo Troisi, Lello Arena e Vincenzo Purcaro in arte Enzo Decaro. Inizialmente noti come “I Saraceni”, quando nel 1976 riescono ad andare in scena al San Carluccio di Napoli cambiano nome nel più noto “La Smorfia” in riferimento a un simbolo della napoletanità: il libro che associa i numeri a sogni o immagini della vita quotidiana. Grazie alle doti manageriali di Decaro riescono a esibirsi a Roma alla Chanson, un teatro di cento posti dentro palazzo Brancaccio dove accorrono numerosi volti noti ad assistere alle loro esibizioni (Proietti, Giuffré); è lì che vengono notati dagli autori della trasmissione televisiva Non stop, in cui esordiscono nel 1977.
Il loro teatro si prestava ai tempi televisivi soprattutto per la brevità testuale: smilzi sketch teatrali che Troisi chiamava con orgoglio «mini atti unici», per rivendicare una credibilità e dignità teatrale. Questi mini atti – scritti dal gruppo – avevano personaggi, costumi, scenografia e uno sviluppo di trama. Inventarono una forma di spettacolo unica nel suo genere benché, assecondando un po’ una moda del momento, i critici le affibbiarono l’etichetta di cabaret. Innovativa, per esempio, fu la presenza di un trio invece che di un duo, secondo una tradizione comica che prevedeva una spalla e un trascinatore. Tutti erano spalle e tutti ricoprivano il ruolo di primo attore, quasi fossero un corpo unico.
Ebbero il gran merito di attualizzare la tradizione napoletana della sceneggiata, destrutturandola, e riproposero il background culturale da cui provenivano secondo modalità artistiche nuove. C’era molta Napoli nei loro spettacoli ma Troisi fu sempre contrario a un certo tipo di “sciacallaggio” che fa leva sui luoghi comuni della napoletanità per un facile consenso: per questo decise di togliere dal repertorio il pezzo su San Gennaro, per evitare di ricadere in un facile stereotipo.
L’esperienza con “La Smorfia” finì, come disse Troisi, perché il trio ebbe paura del successo e di diventare ripetitivo. Troisi proseguì una carriera breve ma eccezionale, cimentandosi anche nel cinema. Definì i suoi film espressione di un cinema “artigianale” perché non perfetto e pieno di non detti e frasi smezzate, come era la sua stessa comicità. Un uomo col sorriso nel cuore, che sul set – benché all’apice del successo – se ne stava sempre in disparte, defilato. Carlo Verdone, in un video che è possibile vedere all’interno della mostra, ne ricorda la mostruosa bravura che consisteva soprattutto «nell’arte di non far vedere l’arte»: i suoi tempi comici erano sublimi fin da quando, nel 1978, lo incontrò a un provino e ne rimase fortemente colpito.
Se a fine mostra vorrete portare con voi un pezzetto dell’universo di Troisi, potrete farlo staccando da un blocchetto alcune poesie che Massimo scrisse e alcune sue foto che valorizzano quel suo sguardo in cui comicità e poesia sembrano trovare dimora.

Giada Oliva
Romana, classe '85, laureata al Dams in Storia del teatro italiano. Ha studiato per diversi anni teatro e danza contemporanea. Particolarmente curiosa, ama essere una cacciatrice di esperienze e di nuovi punti di vista.