Eduardo: un nome che non suona a vuoto nelle memorie degli italiani ma che anzi – al contrario – porta con sé ricordi, sapori, profumi di un’Italia perduta, verace nei suoi vizi e nelle sue virtù, autentica in miseria e in nobiltà, fondata sul rispetto di alcuni valori quali la religione e la famiglia; un Paese che – spazzato via dalla secolarizzazione e dalla massificazione della società – non esiste più se non tra le pagine del romanzo teatrale di quello che è stato uno dei più lodevoli drammaturghi italiani di sempre, nonché attore, regista, scrittore: stiamo ovviamente parlando di Eduardo De Filippo.
Rileggere pièce come Natale in casa Cupiello, Napoli milionaria! o Sabato, domenica, lunedì significa compiere una precisa scelta emotiva che risiede nell’accordare all’autore il permesso di sbalzarci indietro nel tempo, in maniera subitanea e improvvisa, in una dimensione che, oggi, appare molto distante ma che, fino a poco fa, era ancora vividamente riscontrabile, in particolare nelle piccole cittadine della provincia nostrana, i cui ritmi arcaicizzanti sono andati disfacendosi – negli ultimi anni in maniera assai più rapida che in passato – con il sopraggiungere delle nuove tecnologie e dei mass media. Pertanto, a chiunque di noi sia nato prima degli anni Duemila, il cuore si stringerà nel dolore amaro del rimpianto alla rievocazione di quelle che erano le caratteristiche imprescindibili del popolo italiano prima che la globalizzazione le spazzasse via con le sue ali potenti, da rapace, lasciandoci solo un mucchio di ceneri. Leggere Eduardo, per definizione l’indiscusso re della commedia napoletana, significa essere pronti a versare lacrime di autentica nostalgia.
Tuttavia, nonostante il cambiamento epocale sia avvenuto dopo la parabola stessa di De Filippo, egli – da grande interprete della realtà quale era – aveva già intravisto nella società italiana del dopoguerra i germi di quella mutazione culturale che si sarebbe poi concretizzata nel corso dei decenni immediatamente successivi. Un esempio su tutti è fornito dal disgregarsi dell’istituzione familiare, primo segnale dell’incipiente desocializzazione che l’intera cultura occidentale vive da alcuni decenni, di cui i testi teatrali di De Filippo sono pieni di tracce.
Vedi i Cupiello di Natale in casa Cupiello che altro non fanno che azzuffarsi l’un l’altro dalla prima scena all’ultima; quando infine la malattia – e poi la morte – ci mettono lo zampino, solo allora prende inizio la “lamentatio” dei reciproci «perdonami». Il protagonista Lucariello vede nella moglie l’origine delle sciagure sue e della famiglia; Concetta dal canto suo non sopporta il marito inconcludente; il secondogenito Tommasino – detto Ninnillo – si vende cappotto, scarpe e averi dello zio Pasquale ancor prima che questi sia dichiarato in fin di vita (in maniera precauzionale, si direbbe); la prima figlia Ninuccia causa la malattia dapprima della madre e poi del padre, in nome del proprio egoismo che la porta a intrecciare una relazione extraconiugale con Vittorio Elia, disinteressandosi del tutto della salute mentale dei suoi vecchi genitori, i quali cadono in uno stato di shock profondo.
Lo stesso si può ben dire della famiglia Jovine di Napoli milionaria! in cui Amalia si autonomina capofamiglia non riconoscendo il ruolo di Gennaro il quale dal canto suo, proprio come Lucariello, non fa altro che domandare delucidazioni su cosa stia avvenendo in casa propria senza mai ottenere risposta; i figli sono lasciati al proprio destino; ad Amedeo il padre ruba persino il poco cibo a disposizione; Maria Vittoria è abbandonata alla prostituzione col beneplacito di tutti. Ma non solo i membri della famiglia, anche gli amici e i vicini di casa sembrano del tutto concentrati ciascuno sulla propria sorte, sulla propria riuscita sociale, non più la solida catena auspicata da Eduardo ma un “parenti serpenti” allargato.
Nel crollo generale, tra i pochi rituali rimasti intatti, uno in particolare spicca per la sua costante presenza nelle suddette piecè: è “‘o ccafè”, la cui preparazione rappresenta un momento spartiacque tra le varie parti della giornata e senza il quale non ci si alza proprio dal letto. È il caffè che scende a rinfrescare l’anima ancora prima del corpo, il caffè che fa riunire gli avventori nella casa di donna Amalia Jovine, così come il gruppo di amici al capezzale di Lucariello; è il caffè dei giorni nostri, ultimo simbolo di una Napoli, di un’Italia e di un Occidente che sembrano oramai irrimediabilmente perduti.

Lucrezia Giorgi
Nata nelle Marche, trapiantata a Bologna da anni, fin da piccola voleva fare la scrittrice. Difatti ora che è cresciuta passa le giornate a leggere e scrivere. Spinta da un grande amore per il Nord Europa, ha vissuto tra Svezia e Regno Unito; nel frattempo si è laureata in Antropologia, religioni e civiltà orientali. Adora i gialli di Agatha Christie, Virginia Woolf, il cinema francese e tante altre cose.