Nel 1814 il poeta Samuel Rogers intraprese un viaggio per il continente europeo con la sorella Sarah. Visitò la Svizzera e poi l’Italia, spingendosi fino a Napoli. Durante tutto il viaggio tenne un diario, il quale fu d’ispirazione per la composizione del suo poema più celebre, Italy, pubblicato tra il 1822 e il 1828. L’edizione successiva, del 1830, venne pubblicata corredata da illustrazioni commissionate a grandi artisti, come il pittore William Turner.
Nato a Stoke Newington nel 1763, Rogers era figlio di un banchiere e intraprese quindi la strada del padre, pur coltivando il suo amore per la letteratura. Iniziò col pubblicare articoli e versi in alcune riviste dell’epoca, in anonimo. Divenuto ricco alla morte del padre, strinse amicizie nel mondo politico e letterario, rendendo il proprio salotto il centro della vita intellettuale londinese. Dopo la scomparsa di Wordsworth, nel 1850, gli fu offerto il titolo di poeta laureato, ma lo rifiutò. Per gli ultimi cinque anni della sua vita rimase confinato in casa dopo essere caduto. Morì a Londra nel 1855, alla veneranda età di 92 anni, un traguardo raro per il tempo.
L’amore per l’Italia lo accomunava a George Gordon Byron e a Percy Bysshe Shelley, da tempo ormai residenti in Italia. Nel 1821, sette anni dopo la prima visita, Rogers tornerà per andarli a trovare. Partì nuovamente con la sorella, ma proseguì per l’Italia da solo. A Bologna incontrò Byron, col quale visiterà Firenze. Dopo essere andato da solo a Roma, sulla via di ritorno per l’Inghilterra, si fermò a Pisa ancora una volta con Byron: nella città toscana risiedeva in quel periodo anche Shelley.
Ma com’è che il poeta inglese recepì il nostro Paese? L’essere in Italia è per Rogers quasi un sogno. Nel suo poema, suddiviso in sezioni dedicate alle varie città italiane, trova i riferimenti letterari che hanno costruito nei secoli l’immaginario collettivo del Bel Paese:
«Sono in Italia? È il Mincio questo?
Sono forse quelle le antiche torrette di Verona?
Cenerò in quel luogo in cui Giulietta al ballo in maschera
Vide il suo amato Montecchi, vicino al quale adesso dorme?
Questo è ciò che mi chiedo di continuo;
E i cartelli per la strada
“A Mantova” – “A Ferrara”, destano
Sorpresa, e dubbio, e compiacimento.
Oh Italia, quanto sei bella!»
Continua con riferimenti letterari anche nel descrivere Firenze, da lui definita, una «gemma / dal più puro raggio, un tesoro degno di uno scrigno». Dante Alighieri è visto come colui che detiene il potere, e soprattutto l’equilibro, per poter dare a ognuno un posto in quel luogo non visibile che è il mondo ultraterreno:
«Lì, sulla sedia poggiata alla parete,
Dante era solito sedersi e conversare, con coloro
Che non sapevano che egli nella sua mano possedeva
L’equilibrio per assegnare a suo piacimento
A ognuno il suo posto nel mondo non visibile,
A qualcuno un posto in alto, ad altri uno in basso»
L’entusiasmo per la bellezza italiana accompagna il poeta da nord a sud, un rapimento quasi estatico, come si evince dai versi dedicati a Roma:
«Sono a Roma! Spesso, quando i raggi del mattino
Incontrano i miei occhi, mi sveglio e piango,
Da dove viene questo eccesso di gioia? Cosa mi accade?
E da dentro una voce emozionata risponde:
Tu sei a Roma!»
L’incredulità di trovarsi in quei luoghi colpisce ogni verso del poema, il quale riesce a trasmettere la lucentezza dei cieli azzurri e della campagne, lucentezza che colpisce persino luoghi come il Cimitero Acattolico romano, che giace ai piedi della Piramide Cestia. Qui «la maggior parte dei piccoli monumenti sono eretti per i fanciulli; giovani uomini promettenti, falciati mentre erano in viaggio, pieni di entusiasmo e di gioia; spose nel fiore della loro beltà, al loro primo viaggio; o bambini portati dalla loro casa in cerca salute».
La parte dedicata a questo luogo è in prosa, come se lo scrittore avesse in qualche modo giudicato i versi troppo scarni per poter descrivere un luogo così pregno di emozioni. La cosa che più sorprende, è che le parole di Rogers sono ancora perfettamente adatte per parlare di un luogo senza tempo, ma che esprime tutto il peso degli anni, vitale e luminoso, ma carico di morte e dell’oscurità dei defunti senza Dio e senza Patria: «Sei te stesso in terra straniera; e quegli uomini sono per la maggior parte tuoi conterranei. Ti chiamano con la tua lingua madre – in inglese – con parole sconosciute ai nativi, note solo a te: e la tomba di Cestio, maestosa, ha anche questo in comune con loro. Anche lei è una straniera in mezzo agli stranieri. È rimasta lì fino a che la lingua parlata attorno è mutata; e il pastore, nato ai suoi piedi, non è più in grado di leggere ciò che su di essa è inciso».

Lucia Cambria
Siciliana, laureata in Lingue e letterature straniere e in Lingue moderne, letterature e traduzione. Particolare predilezione per la poesia romantica inglese e per la comparatistica. Traduttrice di prosa e versi, nel 2020 ha trasposto in italiano per Arbor Sapientiae il romanzo "L’ultimo uomo" di Mary Shelley.