Vincent Hanna è un detective della polizia di Los Angeles mentre Neil McCauley è un rapinatore. Due uomini di mezz’età. Due professionisti. Anime solitarie che sanno fare solo quello che fanno. A interpretarli due mostri sacri del cinema: Al Pacino e Robert De Niro. Per la prima volta insieme nella stessa scena, dopo i crediti condivisi ne Il padrino – Parte II (1974) di Francis Ford Coppola, in Heat – La sfida (1995) di Michael Mann, gli attori si confrontano a spada tratta, recitando – tra le molte scene – il bellissimo dialogo che segue:
«Ed è questa vita regolata quella che fai?»
«Che faccio? No. La mia vita… no, la mia vita è un disastro assoluto. Ho una figliastra incasinata come poche, per il suo vero padre che grazie a Dio è un gran coglione. Ho una moglie, la madre, ma ormai siamo in rotta, un matrimonio irrecuperabile il mio terzo… e questo perché passo tutto il mio tempo a dare la caccia a quelli che fanno il tuo lavoro. Ecco la mia vita»
Vincent e Neil sono due opposti che si attraggono e proprio per questo motivo risultato uguali. Un principio binario di introspezione dei personaggi che il regista ha caro fin dai tempi di Manhunter – Frammenti di un omicidio (1986) e che aveva trovato un primo sviluppo nel televisivo Sei solo, agente Vincent (1989), di cui Heat è un’evidente riscrittura. Hanna e McCauley non si mentono mai e finiscono presto col capirsi.
Il progetto di Heat ha quindi diversi anni di evoluzione – considerando lo stallo produttivo derivante dalla lavorazione di un altro film di Mann, L’ultimo dei Mohicani (1992) – e conferma l’influenza del polar francese su Mann, se si pensa all’intreccio di Tutte le ore feriscono… l’ultima uccide (1966) di Jean-Pierre Melville. Ma più in generale fa emergere una volta per tutte la volontà di intrecciare la passione per il “crime” con una sensibilità personalissima per il “romance”. Qualcuno ha persino parlato di “action-soap” e chi scrive non fatica ad accettare la definizione con un sorriso. Il film è in realtà più complesso: da questa classica caccia del gatto col topo si diramano sotto-trame e personaggi particolarmente interessanti, come Chris (il collaboratore di Neil interpretato da Val Kilmer, che a differenza del suo capo e mentore mette da subito l’amore per la compagna davanti a tutto). Una scelta che presto o tardi dovrà fare anche McCauley e che segnerà il suo destino in questa storia.
Il film evidenzia, poi, quegli elementi ormai riconoscibili dell’immaginario manniano, come l’uso della macchina a spalla, le riprese a bordo di furgoni ed elicotteri, gli incontri e scontri in stazioni e aeroporti, ovvero quelli che l’antropologo francese Marc Augé ha definito “non-luoghi” e che nell’universo di Michael Mann compaiono soprattutto all’inizio o alla fine delle vicende. Altro spazio caro al regista è la spiaggia, e più in generale il mare, che in Heat diventa un paesaggio alieno e sconfinato nel quale può perdersi lo sguardo del rapinatore. Questa scena, in particolare, rivela la capacità di Mann di sospendere l’azione attraverso delle inaspettate dilatazioni temporali. Accadeva già in Strade violente (1981), ma lo rivedremo soprattutto in Miami Vice (2006). A volte l’uomo, sembra dirci l’autore, ha bisogno di fermarsi almeno un momento per sapere di stare provando qualcosa. Solamente così potrà essere sicuro di riconoscersi. È una costante ricerca di sé.
Vincent e Neil in Heat corrono come treni e non hanno mai tempo. Questo concetto ritorna spesso nei discorsi di entrambi, avvicinandoli perciò anche quando si trovano a chilometri di distanza e l’uno non ha idea di dove si trovi l’altro e – per un certo frangente – neppure di dover cercare quella persona precisa. La prima volta in cui i poliziotti vedono la banda riunita fuori da un ristorante, Vincent viene rapito dall’immagine solitaria di Neil, l’unico senza donna al seguito. Ne viene come calamitato, lo osserva, lo studia, poi chiama al telefono sua moglie come per essere sicuro di non essere solo. Ha annusato una bestia della sua stessa razza, come il Vincent (nomen omen) di Tom Cruise in Collateral (2004) si rispecchierà per un secondo in un lupo grigio che attraversa la strada. Ma anche come il Will di William Petersen in Manhunter, riconosciuto da Hannibal Lecktor/Brian Cox dal profumo che porta ma soprattutto dal comune interesse per le menti perverse.
Heat è stato girato interamente a Los Angeles, in location reali, con la fotografia del nostro Dante Spinotti. La fortissima componente realista della pellicola ha ispirato Christopher Nolan per la rappresentazione di Gotham nei suoi film su Batman ed è risaputo che la scena della rapina de Il cavaliere oscuro (2008) deve moltissimo a quella del film di Mann. Inoltre, pare che successivamente alcuni abbiano imitato le perfette tecniche criminali messe in scena e che, di conseguenza, esse siano state studiate dai corpi speciali incaricati di prevenire e contrastare quel tipo di rapina. Forse non un cult, almeno non per tutti, ma sicuramente un film entrato nell’immaginario del pubblico. Poco più tardi Pacino tornerà a farsi dirigere dal regista per Insider – Dietro la verità (1999), thriller di denuncia molto diverso, ma anch’esso finemente ritmato. I due film sono l’apice del percorso di Mann e Heat, nello specifico, il centro nevralgico del suo universo.

Alessandro Amato
Nato a Milano, conclude gli studi a Torino, dove continua a lavorare nell'ambito critico e festivaliero. Collabora con "A.I.A.C.E." e il magazine "Sentieri Selvaggi". Dirige rassegne di cortometraggi e cura eventi per la valorizzazione del cinema italiano. Quando capita è anche autore di sceneggiature per la casa di produzione indipendente "Ordinary Frames", di cui è co-fondatore.