Spesso viene sottovalutato l’impatto che ha avuto il teatro di Anton Čechov sulla modernità e sulla postmodernità. Questo grande scrittore ha mutato il teatro moderno, consentendo un’evoluzione che altrimenti non ci sarebbe stata. Quel teatro di fine Ottocento, che ancora dipendeva dai dettami antichi e che faticosamente cercava un nuovo modo di esprimersi, uscendo dai confini del teatro borghese, sentiva la necessità di nuove forme espressive, che rendessero il cambiamento in atto nell’uomo del tempo, quella palpabile assenza di prospettive, quell’ansia nei confronti del cambiamento. Sentimenti, questi, che ogni grande intellettuale e artista dell’epoca percepì e cercò, in qualche modo, di interpretare. L’incertezza e l’irrequietezza necessitavano nuovi registri, e ad essere privilegiati furono alcuni temi quali la soggettività, la bizzarria, l’interiorità, il disagio sociale, la paura del futuro, misti comunque a una persistente fiducia proprio in quel futuro così denso di nubi. Erano i sintomi del cambiamento in atto. Un cambiamento che si prospettava come permanente e decisivo, oltre che inarrestabile per qualunque classe sociale.
Innanzitutto, il teatro di Čechov è un teatro da camera. Questa tipologia di messa scenica non prevede un grande sipario o palco e neppure un grande pubblico: è minimo lo spazio tra attore e spettatore. Le emozioni, così, si fanno palpabili, le espressioni degli attori più evidenti e la voce più bassa e vicina, complicando ancora di più l’esibizione. Se un attore sbaglia, infatti, il pubblico se ne accorge con facilità. E d’altra parte se uno spettatore parla, l’attore lo sente e può distrarsi. Insomma, non una tipologia di teatro adatta ad attori emergenti. E questo ha complicato non poco la difficoltà della realizzazione. Eppure, si tratta di un teatro basato sulla parola, capace di suggerire grandi spazi laddove il palco è ridotto; siamo in un salotto, eppure l’azione si svolge in un giardino.
Čechov è famoso per opere come Il Gabbiano o Tre sorelle, ma raramente si parla dei testi minori, che invece richiedono prove attoriali assai complicate. Non perché lo scrittore e drammaturgo ricerchi degli attori con caratteristiche fisiche particolari, ma perché pone delle difficoltà oggettive, che necessitano sforzi cui solo alcuni possono far fronte. Prendiamo, per esempio, L’orso, Proposta di Matrimonio, Tragico Controvoglia e Il Tabacco fa Male. Sono quattro opere teatrali brevi, tra il comico e il tragico, in continua oscillazione tra i due generi. Non si può parlare di commedia, ma neppure di tragedia, perché vi è un superamento delle due tipologie, molto più di quanto sia mai stato fatto in passato. I due registri divengono addirittura interscambiabili, al punto da confondere lo spettatore: se si aspetta la commedia, si trova di fronte una storia quasi drammatica; e nel caso in cui creda di assistere a un dramma, finisce per farsi una risata, distaccandosi per un attimo dall’evento luttuoso in atto. Le quattro pièce sono state concepite come opere autonome, ma spesso vengono unite in due atti distinti, ricreando una vera e propria storia familiare, che inizia e finisce con un matrimonio, mostrando il continuo divenire della vita e il suo progressivo ripetersi a ritmi alterni. Si tratta di testi animati da veleno e tragedia, abilmente celati dietro le ironiche battute e i dialoghi intelligenti del teatro di Čechov. Le vicende familiari vengono analizzate fino in fondo, rivelando la grettezza e lo scarso coraggio di chi, spesso per timore del giudizio altrui, non prende le giuste decisioni, prediligendo la forma alla sostanza. Tutto ciò lascia emergere scontento, frustrazione, divario interiore tra i personaggi (che spesso non si comprendono o, se lo facevano, col tempo smettono di intendersi, fermi nell’idea di sé o di quella persona che credono di conoscere ancora).
Il contenuto delle opere, inoltre, si presenta come malleabile: ne è un esempio il divertentissimo monologo de Il Tabacco fa Male, che si presta a una duplice chiave di lettura (un marito schiavizzato dalla moglie, o viceversa), e in ogni caso il testo conserva la sua vivacità e importanza, perché lo scopo dell’autore non è semplicemente quello di raccontare una storia, ma di rivelare la profondamente mutata natura delle persone. Un teatro, quindi, che scavi nel tessuto sociale. La stessa tipologia di personaggi prevede l’alternarsi di un popolano e di un aristocratico: due mondi solo apparentemente paralleli, in attesa di un ricongiungimento permanente. Questo teatro, a cavallo tra popolo contadino e borghesia, tra Ottocento e Novecento, svela la sua attualità e modernità, mostrando la sottile differenza tra i due mondi. Sentimenti simili, che si ripetono nel servo e nel padrone. Straordinari moti del cuore e della mente, che non conoscono differenza di censo e che si rivelano parte di un tutto, che è l’umanità intera.

Adele Porzia
Nata in provincia di Bari, in quel del ’94, si è laureata in Filologia Classica e ha proseguito i suoi studi in Scienze dello Spettacolo. Giornalista pubblicista, ha una smodata passione per tutto quello che riguarda letteratura, teatro e cinema, tanto che non cessa mai di studiarli e approfondirli.