È vero quello che si dice a proposito de Il primo re di Matteo Rovere: usciti dalla sala, non abbiamo l’impressione di aver visto un film italiano. Questo fatto è forse uno degli aspetti più interessanti della pellicola, e ci costringe non solo a interrogarci sul film in sé, ma anche sul significato della nostra cinematografia e sulla percezione che abbiamo di essa.
Nel tentare di scoprire come Rovere sia riuscito a suscitare questo genere di quesito, la prima traccia da seguire – poiché si impone come la più evidente – è quella della lingua. Grazie alla collaborazione con l’Università di Roma La Sapienza i dialoghi del film su Romolo e Remo sono stati scritti e recitati in proto-latino, una lingua ricostruita “ad hoc” nel tentativo di avvicinarsi il più possibile a quello che si immagina essere il latino parlato nell’VIII secolo a.C. In questo modo Rovere, agendo su una sensazione inconscia data dalla scelta della lingua, non necessaria alla diegesi filmica seppure a questa funzionale, ci ha fornito dei particolari occhiali tramite i quali vedere un film italiano con gli occhi di chi guarda un film straniero: i sottotitoli. È vero che i sottotitoli sono presenti anche quando guardiamo qualcosa di spiccatamente legato alla nostra terra: i film e le serie in dialetto. Ma la sensazione che ne deriva è ben diversa rispetto a quella del proto-latino di Rovere, che percepiamo come qualcosa di molto più esotico.
In secondo luogo, consideriamo su cosa cade il nostro sguardo: sulle vicende di Romolo e Remo, private inaspettatamente del loro fascino fiabesco. Non si vedono neonati abbandonati, contadini di buon cuore, ceste lasciate sul fiume e – soprattutto – non c’è nessuna lupa. I personaggi di Rovere sono uomini adulti, primitivi, sporchi e violenti che, seppure comunicano in un latino rozzo e accuratamente ricostruito, parlano poco. Gli unici lupi che ci sono, sono quelli nominati dai personaggi del film terrorizzati all’idea di essere sbranati nella solitudine della foresta. Anche qui, l’assenza degli elementi per noi più familiari contribuisce ad accrescere quella sensazione di non-italianità di cui parlavamo prima: ci riesce quasi impossibile pensare a Romolo e Remo senza immediatamente figurarci l’iconografia della lupa; risulta più plausibile immaginare che una storia del genere sia stata pensata da qualcuno estraneo alla nostra cultura.
Tuttavia, sarebbe fuorviante pensare che Rovere si limiti a un mero autocompiacimento per la verosimiglianza archeologica, la fotografia a luce naturale, le coreografie dei combattimenti e la violenza dilagante. Nonostante il primitivismo dei protagonisti, infatti, sono tanti gli interrogativi di cui Romolo e Remo si fanno testimoni: «Vale la pena vivere una vita non dignitosa?»; «Cos’è il potere, e quanto dura?»; «Fin dove posso anteporre un legame familiare al benessere della comunità?»; «Che cos’è la giustizia in un contesto violento?». L’accostamento di interrogativi così moderni a personaggi primitivi può essere oggetto di polemica. Considerato però che il tempo della narrazione coincide proprio con quell’VIII secolo a.C. che, secondo ormai la maggior parte degli studiosi, è l’epoca della stesura dei poemi omerici, questa interpretazione non sembra così anacronistica. Cosa sono infatti i poemi omerici se non opere che narrano vicende di uomini primitivi, violente, ma rese eterne da eterne domande? Il primo re, dunque, non è solo un film estremamente curato dal punto di vista della verosimiglianza archeologica, ma possiede anche una narrazione tragica coinvolgente e auspicabile per un mito di fondazione di una civiltà.
Per concludere, tornando alla questione dell’italianità, possiamo dire che Il primo re non sembra un film italiano forse perché pare essere appetibile per il mercato straniero. Eppure, se c’è stato un genere in cui noi italiani venivamo considerati dei veri e propri maestri – forse il nostro genere identificativo – quello era proprio lo storico-mitologico, particolarmente florido ai tempi della nascita della nostra cinematografia nazionale. L’esempio più noto è Cabiria, film degli anni ’10 del Novecento ambientato durante le guerre puniche e considerato ancora oggi un capolavoro studiato in tutto il mondo. Questo ritorno alle origini della civiltà, che è effettuato anche attraverso un ritorno alle origini della cinematografia spiccatamente italiana, ricorda un po’ l’operazione fatta da David Wark Griffith con il film La nascita di una nazione che narrava non solo la fondazione della civiltà americana ma che costituiva anche la fondazione del linguaggio cinematografico classico, tipicamente americano. Dire che Rovere è il nuovo Griffith è certamente eccessivo, ma che questo film sia di buon auspicio per la produzione italiana futura ci pare invece di poterlo serenamente affermare.

Elena Rangillo
Nata a Roma nel 1991, dopo la laurea in filosofia ha proseguito gli studi nel settore cinematografico, dove attualmente lavora come trailerista. Ama la musica barocca, i dolci siciliani e tutte le Nouvelle vague del mondo.