CinemaPrimo PianoIl momento più bello: i film degli anni Cinquanta di Luciano Emmer

Alessandro Amato29 Novembre 2019
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Poco più di dieci anni fa, il 16 settembre 2009, ci lasciava Luciano Emmer: classe 1918, milanese, cominciò con una serie di documentari d’arte con l’amico Enrico Gras nel secondo dopoguerra e presto si fece notare da Sergio Amidei, che per lui scrisse e produsse Domenica d’agosto (1949). Emmer fu autore, nel decennio successivo, di una serie di commedie popolaresche (qualcuno lo cita, insieme a Renato Castellani e Luigi Comencini, quando si parla di Neorealismo rosa) non troppo apprezzate dalla critica dell’epoca ma in grado, oggi, di raccontare un delicatissimo momento sociale del nostro Paese. Inoltre, la leggerezza e la puntualità delle vicende rappresentate nei suoi primi film non possono che collocarlo fra i cineasti più importanti del cinema italiano. Se ai tempi veniva accusato di essere poco impegnato, ora possiamo invece guardare alla sua opera con la giusta distanza e riconoscerne l’efficacia espressiva e finanche il suo straordinario valore storico.

Dall’esordio fino a La ragazza in vetrina (1961), il cineasta realizza otto pellicole dopo le quali abbandonerà il cinema per ben trent’anni, dedicandosi alla televisione narrativa e pubblicitaria, fra decine di Caroselli, film per il piccolo schermo e documentari (sulla pittura, ma non solo). E sono perciò gli anni Cinquanta quelli che maggiormente interessano gli studiosi del cinema emmeriano, il periodo più intenso della sua elaborazione drammatica, in cui risalta l’impegno nell’interpretare attraverso le immagini il mondo che lo circonda e che anima in lui mille interrogativi. Uno fra i tanti riguarda la vita delle donne nel passaggio dalla cultura contadina allo sviluppo dei centri urbanizzati. In numerose pellicole, Emmer ha tentato di riflettere sugli scontri che le ragazze dovevano affrontare nel rapportarsi, in particolare, con la generazione dei genitori: ogni giorno una sfida. Un esempio utile si può trovare in Terza liceo (1954), gioiellino della nostra cinematografia che, fra le altre cose, ispirerà Carlo ed Enrico Vanzina quando molti anni più tardi proporranno la serie I ragazzi della 3^C (1987-89) per dare un colpo di popolarità alla nascente televisione berlusconiana.

Altrove la ricerca è persino più sistematica, più vasta, come in Domenica d’agosto. Il primo film di Emmer (e Amidei) parte dall’idea di un reportage nei luoghi di balneazione dei romani e finisce col costruire un intreccio di episodi proprio su una spiaggia di Ostia. Grandi folle in movimento, treni ricolmi, strade trafficate, file di biciclette. L’occhio del regista si sofferma sui numerosi dettagli che compongono questo quadro, come già aveva fatto in lavori documentaristici come Il dramma di Cristo (1948), montato con le scene degli affreschi padovani di Giotto e con la “dizione” di Gino Cervi su testo di Diego Fabbri. Partecipano alla scrittura Franco Brusati, Giulio Macchi e Cesare Zavattini. Quest’ultimo quasi a garanzia di Neorealismo, seppure sempre pronto a sperimentare vie alternative di approccio al vero. Qui la parola d’ordine sembra “immediatezza”. Infatti, tutto è al tempo presente e gli eventi accadono simultaneamente in angoli diversi dello stesso universo.

Sulla stessa linea sembra piazzarsi Parigi è sempre Parigi (1951), che sposta la narrazione episodica intorno a un viaggio organizzato nella capitale francese per un gruppo di romani. L’elemento che più colpisce è una sorta di malinconia dovuta all’idea della temporaneità. A Emmer si è sempre rimproverato che i suoi film non avessero una conclusione, che le storie non si chiudessero né con una soluzione edificante né con la tragedia. Ma è evidente che in questo sta la sua modernità, nel suo aderire allo scorrere insondabile del vivere e nell’impossibilità di riorganizzare definitivamente il mondo attraverso il cinema come filtro intellettuale (prerogativa dell’altro grande milanese Alberto Lattuada). Tutto qui sembra rubato al fluire libero del quotidiano, come testimonia la suggestione di una protagonista, l’attrice francese Hélène Remy: «Tutto era reale, anche la bellissima scena finale era girata mentre intorno la vita vera della stazione pulsava».

Eppure, inoltrandosi in questo decennio difficile, anche Emmer accetta di alterare il proprio tono espressivo in direzione della farsa, anticipando molti elementi della Commedia all’italiana e dimostrando notevole sensibilità. Basterebbe ricordare Il bigamo (1956), pellicola dagli echi kafkiani che dà una spinta alla carriera di Marcello Mastroianni e lo mette al centro di vicende tanto assurde quanto verosimili. Mentre altrove l’attore si presta nuovamente alla regia emmeriana nei panni di un giovane medico combattuto fra l’ambizione e le responsabilità nei confronti della donna da cui aspetta un figlio. Il momento più bello (1957) mette sul tavolo, una volta di più, tutte le facce di un periodo storico pieno di entusiasmo e paure, avviluppato nel sogno della ricostruzione e del prossimo boom economico ma, al tempo stesso, stretto nella morsa delle aspettative sociali che tali cambiamenti prevedono.

Alessandro Amato

Nato a Milano, conclude gli studi a Torino, dove continua a lavorare nell'ambito critico e festivaliero. Collabora con "A.I.A.C.E." e il magazine "Sentieri Selvaggi". Dirige rassegne di cortometraggi e cura eventi per la valorizzazione del cinema italiano. Quando capita è anche autore di sceneggiature per la casa di produzione indipendente "Ordinary Frames", di cui è co-fondatore.