LetteraturaPrimo PianoIl Minòs dantesco: un excursus mitico sulla figura del giudice dei morti

Adele Porzia3 Febbraio 2022
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«Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia: / essamina le colpe ne l’intrata; / giudica e manda secondo ch’avvinghia. / Dico che quando l’anima mal nata / li vien dinanzi, tutta si confessa; / e quel conoscitor de le peccata / vede qual loco d’inferno è da essa; / cignesi con la coda tante volte / quantunque gradi vuol che giù sia messa. / Sempre dinanzi a lui ne stanno molte: / vanno a vicenda ciascuna al giudizio, / dicono e odono e poi son giù volte». È un’immagine spaventosa quanto sbalorditiva, quella del nerboruto Minosse, il celebre legislatore di Creta, mentre siede all’entrata del cerchio dei lussuriosi e giudica le anime dei dannati. Dante Alighieri ne fa un ritratto spietato e lo descrive magistralmente mentre attorciglia la coda e assegna il cerchio ai dannati. Previa confessione, naturalmente.

Si tratta di una delle immagini più evocative della Divina Commedia, contenuta in uno dei canti più celebri: il V dell’Inferno, quello del silenzioso Paolo e della loquace Francesca. Eppure, prima di sognare e di commuoverci con la loro drammatica storia, dobbiamo necessariamente confrontarci con il mostruoso Minosse. E, visto che per forza di cose dobbiamo entrare in contatto con lui, tanto vale fare delle considerazioni in merito. Innanzitutto, ha quest’essere terribile e incorruttibile le carte in regola per giudicare le anime infernali? Assolutamente sì, diremmo, e senza avere neppure un barlume di dubbio.

Dante, infatti, deve questa felice collocazione a Virgilio, suo maestro e guida “turistica”, poiché questi aveva già a sua volta insignito Minosse dell’alto titolo di giudice dei morti, nel VI libro della sua Eneide. E il nostro poeta preferito conosceva bene l’opera del suo maestro, al tal punto che durante il loro viaggio infernale – precisamente nel XX canto della prima cantica – lo stesso Virgilio si congratulava con Dante per la sua completa conoscenza dell’Eneide: «Bel lo sai tu che la sai tutta quanta». Dante aveva bene in mente l’uso che ne faceva Virgilio, insomma. E certamente sospettava che non fosse una sua invenzione, ma che avesse una lontana e ben precisa radice mitica.

Minosse compare nell’XI libro dell’Odissea (che Dante non ha sicuramente letto), sempre con la medesima funzione. Ma anche in questo caso, ci illuderemmo se pensassimo che si tratti dell’archetipo di un mito ben più remoto. Minosse è intimamente legato alla città di Creta e, quindi, a una civiltà precedente a quella greca, così come la conosciamo. Dobbiamo, dunque, attenerci ai miti legati alla sua mostruosa persona.

Innanzitutto, Minosse è figlio di Zeus ed Europa, unione simbolica di Occidente e Oriente. Tale amplesso sarebbe avvenuto sotto a un platano che ancora adesso è possibile scorgere nella piazza di Kos. Europa proveniva per l’appunto dalla Fenicia e, dato che era bellissima, aveva naturalmente attratto il padre degli dei, che ogni volta non si faceva scrupoli a tradire Era. Stavolta, però, si trasforma in un toro bellissimo, animale fondamentale nella civiltà cretese e filo conduttore delle vicende mitiche. Minosse, divenuto adulto, domanda agli dei una prova della sua origine divina e gli dei gli mandano un bellissimo toro bianco, direttamente dal mare. Minosse non avrebbe dovuto tenersi l’animale: doveva sacrificarlo. Eppure, sceglie di non farlo e si gode il trono di Creta e la moglie Pasifae, nella felice consapevolezza di essere un dio. Poseidone, naturalmente, non approva e fa innamorare Pasifae del toro. Ora, la regina è ovviamente un essere umano e, perciò, il bestione cornuto non mostra segni di apprezzamento nei suoi confronti. Allora, senza alcuna vergogna, la regina chiede a Dedalo – geniale costruttore di cui sentiremo ben parlare – di costruirle una giovenca di legno o ferro, nella quale possa entrare e attirare il toro: il risultato è un minotauro.

Ma la mostruosa creatura, frutto di questa poco convenzionale unione, è indomabile e richiede sacrifici umani. Allora, Minosse domanda a Dedalo non una giovenca, ma un labirinto in cui recludere il mostro. Dedalo svolge egregiamente il suo compito e Minosse lo chiude dentro, insieme al figlio Icaro. Questi tenta di fuggire con ali di cera, si avvicina troppo al sole e muore. Mentre siede nel labirinto, il minotauro pretende sacrifici umani e Minosse gli manda una ventina di giovinetti, tra ragazzi e ragazze, per soddisfare la sua fame incontenibile. Ma un giorno arriva Teseo e sconfigge il minotauro, aiutato da Arianna, la figlia del legislatore cretese. Da questo breve racconto già si ha il sentore della cattiveria di Minosse ma, oltre a quello che è già stato detto, vale la pena concludere questo poco lusinghiero ritratto aggiungendo qualche altro particolare. Oltre a essere un sanguinario regnante, era un marito violento e infedele. E Pasifae, gelosa e sfiancata dal suo comportamento, gli avrebbe mandato una terribile maledizione: a ogni atto sessuale, il re avrebbe eiaculato serpenti e scorpioni, sconvolgendo le sue amanti con una sorpresa senza precedenti e quasi certamente impedendo loro di sopravvivere a tanto sgomento.

Questo è il ritratto mitologico dello spaventoso Minosse e non stupisce a questo punto che un essere così terrificante giudicasse le anime dei dannati, perché – nonostante la sua esistenza pittoresca – è certamente il più adatto a incarnare il ruolo dell’incorruttibile e severo giudice, che Dante, dopo una così lunga tradizione, gli assegna a occhi chiusi. Fortuna che non avremo mai la sventura di incontrarlo lungo il nostro cammino nell’Aldilà.

Adele Porzia

Nata in provincia di Bari, in quel del ’94, si è laureata in Filologia Classica e ha proseguito i suoi studi in Scienze dello Spettacolo. Giornalista pubblicista, ha una smodata passione per tutto quello che riguarda letteratura, teatro e cinema, tanto che non cessa mai di studiarli e approfondirli.