«Odio e amo. Forse mi chiedi come ciò sia possibile.
Non lo so, ma sento che mi accade, ed è una tortura»
Questi i versi con cui Catullo esprime l’ambivalenza della passione di cui si sente preda, e vittima di una dilacerazione irreparabile. Quella tra Lesbia e il poeta è una complessa vicenda amorosa che si è tentato di ricostruire dalle poesie disseminate nel Liber, la raccolta dei vari componimenti – certamente non tutti – di Catullo.
L’evento cruciale della sua esistenza fu l’incontro, infatti, con una donna di cui si innamorò perdutamente e che cantò con lo pseudonimo di Lesbia. Si trattava – con forte possibilità – di Clodia, sorella del tribuno della plebe, Clodio, e alleato di Cesare. La storia d’amore che ne nacque, con una donna d’una decina d’anni in più, si sviluppa tra entusiasmi e depressioni, litigi e rappacificazioni; una storia esaltante e tormentosa che non è narrata direttamente dal poeta ma emerge dall’espressione dei suoi più intimi sentimenti. In alcuni carmi, l’amore appagato esplode gioiosamente ma, immediatamente dopo, la gioia è offuscata dalla gelosia e dall’amara consapevolezza che la donna amata non contraccambia la sua stessa totale dedizione. Un amore che, fin da subito, si profila proibito: Lesbia, infatti, non è una cortigiana ma una donna d’alto lignaggio sposata con un importante uomo politico. Questo rapporto assume per il poeta un’importanza tale da sostituire perfino i suoi più stretti legami familiari.
È questa la novità rivoluzionaria nella letteratura romana: l’esaltazione di un amore non solamente fisico tale che, senza di esso, la stessa esistenza perderebbe di significato. Altro disincanto è nel tentativo di recuperare la “fides”: sebbene il rapporto non sia fondato su un vincolo matrimoniale, Catullo mostra di aver sperato quanto meno su un impegno di affetto e lealtà reciproci. «Dice la mia donna di non volersi unire a nessun altro che a me, ma ciò che una dice all’ardente innamorato, bisogna scriverlo nel vento e sull’acqua che rapida scorre» e, anche se si coglie l’umiltà di dichiararsi disposto a tollerarne i tradimenti, l’amore del poeta è troppo ardente e Lesbia troppo infedele perché la sofferenza non sfoci in rancore. È di qua che nasce l’ossimoro iniziale: le infedeltà ripetute fanno sì che l’affetto e la stima diminuiscano ma, allo stesso tempo, rendano ancor più ardente il desiderio; il tormento pressante spinge a una scissione, tale che il poeta «non può più volerti bene, divenissi perfetta, né cessare di amarti, compissi qualsiasi vergogna».
Al lamento si alterna l’ingiuria e, infine, l’epilogo segnato da tre memorabili carmi. Se nel primo domina la consapevolezza che l’unica soluzione sia il distacco e nel secondo il poeta affida ai suoi amici un augurio sarcastico da trasmettere a Lesbia, il terzo rappresenta il bilancio di un fallimento: non perché si senta colpevole, ma perché ogni suo sforzo è stato vano; di qui l’invocazione agli dei, non perché «lei ricambi il mio amore o voglia divenire pudica» ma perché possano aiutare a «guarire e liberarmi di questo orribile morbo».

Monica Di Martino
Laureata in Lettere e laureanda in Filosofia, insegna Italiano negli Istituti di Istruzione Secondaria. Interessata a tutto ciò che "illumina" la mente, ama dedicarsi a questa "curiosa attività" che è la scrittura. Approda al giornalismo dopo un periodo speso nell'editoria.