LetteraturaPrimo PianoIl “flusso di coscienza”: voce dell’anima o semplice tecnica narrativa?

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Dall’inglese “stream” (corrente, flusso), lo “stream of consciousness” (“flusso di coscienza”) è la tecnica narrativa maggiormente adoperata per esprimere liberamente ciò che, esente da sovrastrutture, è la lingua della mente. Al pari della distinzione tra forme “libere” e forme “legate”, discorso diretto e indiretto, il flusso di coscienza preme sulla capacità dell’io interiore di comunicare in attimi di immediatezza e cristallina sincerità – spesso brevi ma intensi – tutta la sua completezza, incoerenze e contraddizioni comprese. A discapito del dialogo organizzato, qui regna una sorta di positivo caos. In maniera chiara e sincera, perciò, e senza inutili sintagmi di legamento (come i verbi “disse” o “pensò”) o espedienti grafici (virgole, virgolette). Fiducia nell’attività psichica perennemente attiva, dunque, e irrefrenabile desiderio di lasciarla scorrere.

Ideata da William James (filosofo e scrittore, nonché fratello del più noto Henry James) e subito tanto ambita, la tecnica narrativa chiamata “flusso di coscienza” rappresenta un’intera generazione di scritti. Dai primi albori del monologo interiore, alle avanguardie del Novecento e ancora oggi attuale. Andando a ritroso nel tempo e partendo da James Joyce, la ritroviamo considerevolmente in Ulisse, suo capolavoro. Al termine del romanzo, infatti, un lungo monologo interiore (composto da ben otto periodi) permette ai pensieri di Molly Bloom, la moglie del protagonista, di scorrere senza punteggiatura, senza quindi limiti di tempo e spazio. Così, l’ampia stratificazione dell’io subconscio, sopra la quale sta l’io cognitivo, assume per il narratore un significato tutto suo. Per altro, evidenzia quanto l’io narrante sia determinato dai suoi stessi processi mentali: in altri termini, quanto l’io narrante dipenda (potremmo dire sempre) dall’io cognitivo.

Oltre Joyce, altri autori confermano la rilevanza del flusso di coscienza: dai meno conosciuti, come Dorothy Richardson e May Sinclair, ai più conosciuti, come Virginia Woolf e Jack Kerouac. In Woolf, prende notevole posto nei suoi più famosi romanzi: a partire da La signora Dalloway a Gita al faro, dove si alternano tempi concisi e tempi lunghi, oppure ancora in Tra un atto e l’altro, nel quale le ansie della scrittrice trovano forma in un lungo monologo interiore. A Woolf verrà poi applicato il ruolo di maggiore esponente della tecnica. In Kerouac lo troviamo ne I Sotterranei, sotto forma di diari e ricordi: 150 pagine, dice Henry Miller nella postfazione, in cui «la lingua è violentata al punto tale da non poter più tornare vergine». Kerouac era però schiavo della carica nevrotica che egli provava nel farlo: il flusso di coscienza, se può aiutare la conoscenza del sé, certamente non difende dalla dipendenza che provoca la stessa ricerca della conoscenza.

Di questa tecnica, attualmente, troviamo alcuni spunti in Don De Lillo, autore postmoderno americano. Ma non solo: il flusso di coscienza viene adoperato anche nel teatro e raccoglie estimatori operanti nei più vari ambiti artistici, musica compresa. Ciò che è certo, è che il flusso di coscienza è proprio dei romanzi (o meglio dei testi, più in generale) vicini all’essere umano. Testi umani: perciò complessi e intricati. È possibile osare: testi illogici, e per questo anche sublimi. Chiudiamo con alcuni quesiti: quello che chiamiamo flusso di coscienza, può allora essere naturale e inarrestabile moto irrazionale della mente umana? Può essere voce dell’anima? Unica via libera di espressione genuina dell’individuo? O è una semplice tecnica narrativa, a sua volta condizionata?

Ottavia Pojaghi Bettoni

Nata a Stoccarda, ha vissuto per molti anni in Germania, in Svizzera e in Francia. Attualmente si divide tra Roma e Verona. Scrive poesie e racconti.