Nel marzo 1860 a Parigi, in un elegante appartamento di Chaussée-d’Antin, due grandi protagonisti della scena culturale e musicale dell’Ottocento si incontrano sotto uno stesso tetto: Richard Wagner visita il grande silenzioso, colui che dal lontano 1829 aveva deciso di fare un passo indietro, di non calcare più la scena teatrale, di scorgere l’avvenire con il suo sguardo defilato, ironico, distaccato da un mondo che non gli apparteneva più. Gioachino Rossini aveva dimostrato al mondo, con il suo grandioso Guillaume Tell, di saper cavalcare con audacia le tematiche romantiche del Grand Opéra, per poi tacere. Il pesarese osserva la società cambiare, scrive musica per diletto, nasconde i suoi pensieri dietro le note degli enigmatici Peccati di vecchiaia e ben sa che il mondo del teatro in musica è in continuo e inesorabile mutamento. Ma l’ospite che ha appena varcato la soglia della sua abitazione parigina sta veramente sbaragliando la tradizione, puntando a riportare in auge la paradigmatica idea di teatro sviluppata dalla Grecia classica al fine di rivoluzionare, anzi di sovvertire, il melodramma e i suoi canoni, così da mettere in scena l’elemento per eccellenza, il «puramente umano», il soggetto per cui, secondo Wagner, vale la pena di lottare per fondare l’opera d’arte dell’avvenire. Teatro non è sinonimo di svago ma di profondo impegno, di attiva contemplazione di un messaggio formativo per un popolo inteso come insieme di menti accomunate dalla volontà di maturare una consapevolezza spirituale, una autocoscienza, alimentata dall’arte.
Anche Wagner ha voluto dimostrare al mondo di saper comporre alla francese, ma il suo Rienzi è stato, diversamente dal Tell rossiniano, una tribolata faticosa vigilia dei suoi capolavori e non l’apoteosi. La cocente delusione della giovanile esperienza parigina, che quasi lo aveva fatalmente distolto dalla musica, aveva acceso in lui quella spinta creativa che lo porterà nel 1843 a presentare al mondo L’olandese volante, già intriso di tutti quegli elementi che caratterizzeranno i suoi drammi in musica a seguire. I numeri chiusi si sarebbero via via disciolti nel flusso senza fine della «melodia infinita», i cantanti si sarebbero dovuti calare nei personaggi interpretati con abilità attoriali sempre più convincenti e le voci avrebbero dovuto accogliere nel canto le parole intrise del significato di testi che non sarebbero più stati bistrattati libretti, ma poesia da vivere sul palcoscenico. Non più virtuosismi, non più vertiginose volute canore, non più libretti da porre al servizio della musica, unica padrona incontrastata di una scena vanitosa e autocompiaciuta. Gli stessi teatri lirici della tradizione andavano abbandonati: questo ardimentoso tedesco ha nella sua mente l’idea di una sala senza ordini, senza palchi, senza comodità accessorie e soprattutto senza luci accese in sala durante le rappresentazioni. Il germe creativo del suo futuro teatro, il Bühnenfestspielhaus di Bayreuth, è nato nella mente di Wagner negli anni di gavetta tra il 1837 e il 1839 a Riga, il cui teatro semplice, senza decorazioni fastose, con una platea degradante e una buca orchestrale profonda pareva la miccia che avrebbe acceso la deflagrazione che sarebbe rimbombata in tutta Europa, e oltre, nell’ancora lontano a venire agosto 1876, la prima assoluta della Tetralogia dell’Anello.
Lunghe, complesse e faticose giustificazioni teoriche rappresentano il campo di forze in cui Wagner si industria per dimostrare il valore delle sue conquiste teatrali, alla ricerca di una verosimiglianza scenica in grado di rappresentare al pubblico l’essenza dell’umano, al di là dei crudi fatti della storia. Se la messa in scena del «puramente umano» è l’obiettivo ultimo della ricerca wagneriana, tutta la creazione teatrale deve rinunciare agli estetismi del melodramma per afferrare la purezza del necessario, il senso più profondo della vicenda umana, ossia la colpa e la via per la redenzione. Inciampare nella piccolezza del particolare per il profitto individuale è ciò che rappresenta, più di chiunque altro personaggio wagneriano, Wotan, il più umano degli umani in quanto loro supremo dio. Per la sua ricerca del verosimile – sulle tracce della Poetica aristotelica – non bisogna cadere nel tranello di giungere all’affrettata conclusione che per Wagner la musica si riduca ad assumere il ruolo di secondario accessorio poiché, se non bastasse l’empirico ascolto delle sue opere, lo stesso musicista afferma nel 1872 che i suoi drammi sono, in una lapidaria definizione, «azioni musicali divenute visibili». La musica sostanzia il dramma, sorge dall’abisso mistico – l’”Abgrund” – dove si posiziona l’orchestra, e si trasfigura nell’elemento visibile sulla scena, abitata dai personaggi e dalle ambientazioni sceniche. La sala buia consente inoltre allo spettatore di vivere profondamente il senso originario del “Théatron”, il luogo pubblico in cui vedere, in cui contemplare la teoria degli accadimenti. La musica, quindi, assume oltre il sipario l’elemento verosimile che coinvolge la vista e l’udito, accentuando l’eccezionalità dello spettacolo, elevando gli animi, conferendo alla bellezza estetica quella componente morale che, sulla scia della filosofia critica kantiana, rende sublime la rappresentazione artistica.
Si torni ora con la mente a quella lontana giornata parigina del 1860. Wagner sa di essere il polo opposto della drammaturgia rossiniana che tace ormai da 31 anni, eppure sente il bisogno di confrontarsi con il grande italiano, più volte attaccato nel corso degli anni, a partire da quella sarcastica e feroce storiella sulla travagliata nascita dello Stabat Mater, pubblicata nel 1842 nella prestigiosa «Neue Zeitschrift für Musik» e maliziosamente firmata con lo pseudonimo Valentino (Henri Valentino, il direttore della prima assoluta del Guillaume Tell). Rossini passava per un pancione, un «mangia biscotti», annoiato e in cerca di denari, pur sempre attratto dal belcanto e dall’edonismo della coloratura. Nel 1851, nelle fittissime pagine di Oper und Drama, prima di procedere a un’acrimoniosa critica del teatro rossiniano, Wagner concede un onore a Rossini definendolo «grande artista», sebbene qualche riga prima lo appelli sarcasticamente fabbricante di fiori artificiali, creatore di velluti, sete, colori illusori, profumi in grado di imitare quelli floreali naturali. Se Wolfgang Amadeus Mozart era artista sano, un «torrente di fuoco» fatto di note, Rossini dovette invece cedere – continua Wagner – alla nuda melodia assolutamente melodica, che scivola nelle orecchie, alla grazia infiorettata e penetrante come l’oppio di una musica impermeabile all’espressione drammatica.
Ma se cercassimo di entrare nelle ragioni della poetica drammaturgica rossiniana, sorvolando sulle ingiurie wagneriane, ne risulterebbe un teatro che non è riducibile a godimento per un pubblico disattento e inutile, bensì un gioco di straniamenti che allontanano dal verosimile, un viaggio labirintico nella psiche di personaggi che con il canto conducono a una dimensione altra, lontana dai ritmi cadenzati della consueta e ordinaria realtà. La musica di Rossini non è azione che si rende visibile, non sostanzia il dramma ma compie un’operazione che Wagner non può accettare e non può capire, poiché il teatro del genio pesarese è un elemento opposto al verosimile, è ricerca costante del fantasioso, che traccia uno spartiacque con la logica della consequenzialità drammatica giungendo perfino nel territorio irrazionale del “nonsense”. I settimini, i pezzi di insieme dileggiati da Wagner durante la conversazione con Rossini, registrata più o meno fedelmente dall’amico Edmond Michotte (pubblicata solo nel 1906 con il titolo La visite de Wagner à Rossini), sono in realtà affreschi musicali in cui il testo e la sua sonorità di significante giocano in un intreccio vocalico e consonantico perfettamente armonizzato e avviluppato alla musica che proviene dalla buca orchestrale.
Quando Wagner è consapevole di travalicare le kantiane forme a priori della percezione sensibile di spazio e tempo, lo fa dichiarare esplicitamente ai suoi personaggi in scena. La salita di Parsifal al Monsalvato giunge al punto più sublime del cammino, quando il giovane spaesato afferma: «Cammino appena, eppure mi pare di esser già così lontano». E il saggio Gurnemanz risponde: «Tu vedi, mio figlio, il tempo qui diventa spazio». Da poco era in cammino il futuro cavaliere del Graal, eppure gli pareva di essere enormemente lontano dal punto di partenza. Wagner dimostra l’ansia di dover chiarire – non sempre riuscendoci al meglio – la narrazione, dilungandosi in lunghe esplicazioni degli accadimenti scenici e degli antefatti per tratteggiare personaggi e azioni nei particolari della loro verosimiglianza con il reale. La plausibilità dello spettacolo deve essere prioritaria a ogni invenzione scenica, che è sì accettata ma a condizione di una dettagliata giustificazione.
All’estremo opposto, Rossini non si preoccupa affatto della esplicazione ma, anzi, intende giungere all’elemento estatico della musica sia nella strumentazione orchestrale, sia (soprattutto) nell’espressione canora. Limitandoci alla trattazione dei registri vocali e, nello specifico, alla voce femminile più grave, il contralto, si nota l’amore rossiniano per il fantasioso. Infatti, i ruoli contraltili “en-travesti” prevedono attrici cantanti travestite da uomo, ma pur sempre con voci femminili; una eco della triste stagione degli evirati cantori e dei loro eroi, ora interpretati da donne. Giochi stranianti che consegnano alla scena ruoli di assoluta difficoltà interpretativa trascendenti la rappresentazione del reale per muoversi verso un mondo altro, pervaso dalla bellezza musicale, sia essa tragica o comica. Da qui si spiega l’ammirazione assoluta di Arthur Schopenhauer per Rossini: la rappresentazione della volontà annullata e trascesa dal linguaggio della musica, che si fa beffe della parola, permette a chi ascolta di mettere a tacere, almeno per il tempo esecutivo, il doloroso moto del “Wille” (la volontà). Wagner, che tanto amava Schopenhauer, non era schopenhaueriano nel suo impianto drammaturgico, quanto semmai nei soggetti scenici che però ricadevano, dal punto di vista della teoresi schopenhaueriana, nei lacci della verosimiglianza con il mondo come volontà e rappresentazione. Il teatro di Rossini stimolò lo spirito di osservazione del filosofo tedesco, che ispirò a sua volta Wagner in un gioco a incastri segnato da un’unica direzione obbligata, quasi a disegnare un sillogismo dall’ironico e quantomeno fantasioso svolgimento.
Wagner che si richiama a una melodia infinita, libera dai lacci dei numeri chiusi; Rossini che si dichiara contrario alla melopea declamatoria di un impianto drammaturgico che vuole superare ogni forma precostituita: entrambi hanno le loro opposte ragioni. Analogamente alla raffaellesca Scuola di Atene in cui i due massimi maestri del pensiero puntano uno il dito verso l’alto, Platone, e l’altro verso il basso, Aristotele, così l’italiano e il tedesco si confrontano in un gioco di contrasti sotto lo stesso tetto, quello della musica. Platone e Aristotele hanno segnato il destino del pensiero dell’Occidente così come Rossini e Wagner sono stati fari luminosissimi per la costituzione di un’arte complessa e mai definitiva come quella del teatro in musica moderno. Fecondo laboratorio di geniale estrosità che ha creato capolavori in grado di resistere all’incessante scorrere del tempo e delle mode. Verso il verosimile o verso il fantasioso, ovvero sempre e comunque verso la bellezza.

Andrea Camparsi
Dottore di ricerca in filosofia. Studioso di estetica e di filosofia della musica, con particolare attenzione al tardo romanticismo. Ha svolto attività di ricerca presso l’Istituto Italiano di Studi Germanici.