LetteraturaPrimo PianoLa poesia di Catullo e il suo tormentato rapporto con Lesbia

https://lacittaimmaginaria.com/wp-content/uploads/2022/01/hhh-4.jpg

Catullo, autore di versi pregni di raffinatezza formale e imbevuti di voluttuosa carica magmatica, amò l’ambigua Lesbia, molto probabilmente identificabile con Clodia, sorella del celeberrimo tribuno della plebe Clodio. Con intensità e vigore, il poeta veronese introdusse la sofferenza amorosa nel panorama culturale dell’austera Roma, aprendo la strada a un filone fortunatissimo in cui si inserirono i poeti elegiaci. Catullo, infatti, verrà ripreso e riadattato, costituendo un punto di riferimento efficacie e incisivo.

Al centro della sua opera, ovviamente, si pone il tormentato rapporto con la sua donna, continuamente desiderata e ambita, ma disprezzata ogni qualvolta venga scalfito il “foedus amoris” che unisce i due amanti. I singhiozzi del cuore del poeta risuonano con violenza tra le pagine del “liber”, all’interno di un involucro formale pressoché perfetto, sottoposto a un incessante “labor limae” e variato dall’impiego di temi e metri differenti. Alla dolcezza di immagini fortemente evocative e patetiche viene opposta l’irruenza di invettive astiose e volgari.

A tal proposito, si faccia riferimento al carme 42, originale trasposizione in versi della pratica popolare della “flagitatio”, attraverso il quale Catullo – aiutato dai suoi endecasillabi – pretende la restituzione dei “codicillos”, mediante l’estenuante utilizzo del turpiloquio. L’amore unilaterale e costantemente disilluso compare a partire dal carme 8, laddove il poeta, rivolgendosi a se stesso e apostrofandosi «miser», dà inizio a un viaggio introspettivo e lacerante. Egli si impone di smettere di impazzire per Lesbia e di rassegnarsi alla fine del rapporto. Nonostante i buoni propositi iniziali, sanciti da espressioni laconiche e perentorie, Catullo si abbandona al nostalgico ricordo dei momenti di assoluta felicità trascorsi con la sua amata. In particolare, rievoca le passeggiate e gli atti d’amore passati. Alla rassegna delle gioie vissute, però, fa da improvviso contraltare la rassegnata constatazione del distacco della ragazza, che non ha intenzione di riappropriarsi dei giorni andati. Catullo cerca, allora, di convincersi della propria forza d’animo con l’utilizzo di imperativi che, però, tradiscono un’incertezza latente: il poeta non può smettere di amare Lesbia e cerca, a tutti i costi, di rimanere ancorato al ricordo del suo amore. Augura alla donna di soffrire e rimanere sola, ma nei versi finali del componimento viene preso dalla gelosia. Immagina Lesbia tra le braccia di un altro uomo e riflette se stesso nel rivale. Traspare, infatti, la volontà di sostituirsi a questo uomo, nel momento in cui Lesbia lo amerà, si dirà sua, lo bacerà e gli morderà le labbra. Questo tentativo di cancellare la figura di Lesbia si rivela, dunque, fallimentare. Nonostante le iniziali imposizioni di distacco, il poeta è ben consapevole della sua fragilità: ritornerà, molto presto, tra le braccia di Lesbia. Il carme 8 rappresenta, dunque, una separazione temporanea tra i due amanti, determinata da una ferita destinata a essere ricucita.

Ben diverso, invece, il contesto del carme 11. In questo caso, si ha uno splendido esempio di “divortium”: il poeta dice addio a Lesbia per sempre, eliminando la possibilità di un riavvicinamento futuro. Il componimento si apre con l’apostrofe ai “comites” del poeta, Furio e Aurelio. Nel “liber” catulliano, questi personaggi competono con l’autore in contesti pederotici. Tuttavia, proprio a loro Catullo affida il compito di riferire a Lesbia «poche amare parole». L’intenzione di separarsi dalla donna emerge dopo un lungo elenco, ricco di luoghi remoti e lontani, che ben simboleggia la distanza fisica e spirituale che Catullo vuole frapporre tra sé e Lesbia. Il riferimento alla campagna britannica di Cesare in questa sezione permette di datare il componimento dopo l’autunno del 57 a.C., a pochi mesi dalla morte del poeta. Il compito di portare a Lesbia la notizia della separazione definitiva viene affidata a due messi: il poeta vuole evitare qualsiasi contatto visivo con la donna e, inoltre, segue il cerimoniale del “divortium” nell’antica Roma, la cui notizia veniva notificata ai diretti interessati da parte di terzi. A partire dal verso 17 del componimento, viene esplicitato il contenuto dei “dicta”: Catullo augura a Lesbia di vivere con i suoi trecento amanti (evidente iperbole) e di rompere a tutti, in egual misura, le reni. Catullo descrive Lesbia come una meretrice ingorda, colpevole di prosciugare le forze dei suoi uomini. Questa descrizione, cruda e fin troppo colorita, viene attenuata dai versi successivi, che descrivono lo stato del poeta. Il suo amore, infatti, è stato ucciso da Lesbia, come  «il fiore del prato estremo», spezzato dall’aratro. Si tratta di un’immagine saffica, ma che ben rende lo stato di Catullo. Il fiore del prato estremo si fa metafora dell’ultima e vera gioia che Catullo aveva provato nell’ultimo periodo della sua vita, mentre vede la morte avvicinarsi sempre di più.

Toni altrettanto drammatici si ripresentano nel carme 76, laddove l’amore per Lesbia viene paragonato a un morbo crudele. Il poeta fa appello agli dei e alla loro clemenza, affinché lo liberino dalla malattia amorosa, che si è intrufolata nelle sue viscere sotto forma di calore mortifero.

Anita Malagrinò Mustica

Nata a Venezia, ma costantemente in viaggio per passione e lavoro, studia Lettere Classiche a Bari. Sognando di poter dedicare la sua vita alla ricerca e all’insegnamento, ha collaborato e collabora con varie realtà editoriali, scrivendo per diverse riviste di divulgazione scientifica e culturale. Appassionata di teatro e di poesia, porta avanti numerosi progetti performativi che uniscono i due ambiti.