«Io mi sento così buono, così tenero, così dolce, che la mia vita fugge lenta e soave, e s’inazzurra, e s’inciela». Con queste favolose immagini Sergio Corazzini raccontava in una lettera all’amico Alfredo Tusti dell’infatuazione avuta per una fanciulla. Si potrebbe dire che questa sensazione della vita che «fugge lenta e soave» abbia colmato tutta la sua breve esistenza, durata appena ventuno anni.
Corazzini nasce a Roma nel 1886 e a causa di problemi finanziari della famiglia, nonostante le origini benestanti, è costretto ad abbandonare gli studi prima di intraprendere il liceo. Lavora quindi preso una compagnia di assicurazioni, “La Prussiana”, sita in via del Corso. Tutte le sere gli amici vanno a prenderlo in quegli «squallidi uffici», come scrive Fausto Maria Martini, altro amico di Corazzini, anch’egli poeta: lo trovavano sempre intento a ripiegare qualche foglietto contenente «i versi scritti nella giornata: “il passaporto” – diceva lui – “dalla miseria della vita del giorno al paradiso che si apriva a quell’ora”». La poesia fungeva quindi da necessaria evasione da una piccola e malinconica esistenza, nella quale solo quei versi scritti nelle ore di lavoro e la frequentazione del Caffè Sartoris, locale del centro di Roma, riuscivano a rianimarlo: qui si riunivano i poeti della città e fu qui che Sergio ebbe i suoi primi confronti letterari.
La poesia di Corazzini si inquadra all’interno del cosiddetto “crepuscolarismo”, il quale non costituì una vera e propria scuola o un movimento ben delineato, bensì una semplice denominazione sotto la quale si raccolse la poesia di alcuni poeti italiani del primo Novecento, caratterizzata da comuni tratti quali: toni dimessi e malinconici, esaltazione delle piccole cose e degli oggetti impoetici e quotidiani. Il termine “crepuscolarismo” venne utilizzato per la prima volta in un articolo de La Stampa nel 1910, in cui il critico Borgese, nel commentare il mondo poetico di quel periodo, disse che si trattava della fase crepuscolare della letteratura italiana.
E all’imbrunire della sua vita, Corazzini vi giunse purtroppo al mattino dei suoi giorni. Si ammalò di tubercolosi e trascorse il suo ultimo periodo presso il sanatorio di Nettuno, durante il quale ha sempre e solo desiderato tornare a Roma dai suo amici: dormiva con gli orari ferroviari sotto il cuscino e spesso scappava dalla casa di cura per andare a vedere i treni partire dalla stazione. Questo è anche il periodo in cui nasce l’amicizia col poeta futurista Aldo Palazzeschi, al quale scriverà: «Ahimè mio carissimo, quale mortale tristezza! Io penso ogni giorno a morire, come la finestra si pensa al sole». Dopo tanto penare, si spegnerà nel giugno del 1907, assistito dalla madre.
La malinconia di Corazzini ha inevitabilmente influenzato la sua poesia e, anzi, i suoi versi possono dirsi un tutt’uno con questa fugace esistenza, permeata da un senso costante di morte incombente, come è ben illustrato in Il mio cuore, del 1904: il cuore del poeta è descritto come una «rossa / macchia di sangue» utilizzata per intingervi la penna. Egli continuerà a scrivere fino a che il suo cuore avrà “inchiostro” da donargli, poiché presto s’esaurirà e con esso terminerà anche la sua poesia:
«Giorno verrà: lo so
che questo sangue ardente
a un tratto mancherà,
che la mia penna avrà
uno schianto stridente…
… e allora morirò»
La sua poesia è pertanto la sua vita e viceversa. Ciò nonostante, la prima poesia di Piccolo libro inutile (1906), la celebre Desolazione del povero poeta sentimentale, esordisce con una domanda che rinnega immediatamente il titolo: «Perché tu mi dici: poeta? / Io non sono un poeta». In seguito esprime tutto il suo essere esausto nei confronti di una vita che gli ha riservato null’altro che patimenti:
«Io voglio morire, solamente, perché sono stanco;
solamente perché i grandi angioli
su le vetrate delle cattedrali
mi fanno tremare d’amore e di angoscia»
Il suo desiderio è dissolversi e abbandonarsi al non-esistere, lasciare questo mondo senza pretendere nessun memoriale, come gli anonimi oggetti tanto lodati dalla sua poetica crepuscolare; e ciò lo dichiara apertamente: «Io amo la vita semplice delle cose», che pare anticipare il sentimento di quella «cosa / posata / in un / angolo / e dimenticata», agognata un decennio dopo da Ungaretti. Il finale della poesia è l’unica verità che gli sia dato conoscere, poiché si è dichiarato l’esatto opposto del poeta vate, ovvero di colui che tutto sa e a cui tutto viene rivelato:
«E muoio, un poco, ogni giorno.
Vedi: come le cose.
Non sono, dunque, un poeta:
io so che per esser detto: poeta, conviene
viver ben altra vita!
Io non so, Dio mio, che morire.
Amen»

Lucia Cambria
Siciliana, laureata in Lingue e letterature straniere e in Lingue moderne, letterature e traduzione. Particolare predilezione per la poesia romantica inglese e per la comparatistica. Traduttrice di prosa e versi, nel 2020 ha trasposto in italiano per Arbor Sapientiae il romanzo "L’ultimo uomo" di Mary Shelley.