CinemaPrimo PianoIl cinema di ieri: dall’aridità della secolarizzazione al rifiorire della speranza, un breve itinerario postmoderno

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L’anima del Novecento si è cristallizzata sulla pellicola, sulla quale si sono impresse le vite delle persone. Sul valore del cinema come documento storico, gli studiosi sembrano oramai concordare. Se si vuole interpretare il ventesimo secolo, bisogna certamente ricordare la funzione esercitata dalle immagini, di ogni tipo, comprese quelle cinematografiche. Secondo Lenin il cinema è il treno della rivoluzione; Mussolini la pensa allo stesso modo, e lo considera l’arma più forte. Hitler, salito al potere, affiderà a Joseph Goebbels il compito di finanziare e controllare la cinematografia. La settima arte si configura dapprima quale veicolo di espressione e di provocazione artistica delle avanguardie, e poi si trasforma nel mezzo di propaganda per eccellenza dei regimi totalitari. Quale migliore strumento per raccontare il Novecento?

Modello interpretativo della società e coscienza critica della postmodernità, il grande schermo registra tendenze e mutamenti. Questo meccanismo si ripete puntualmente, ogni volta, fin dalle prime sperimentazioni dei Lumière, che hanno rivelato al mondo la magia delle immagini in movimento. Alcuni film, in particolare, sembrano essersi interrogati sulla condizione dell’uomo nella società contemporanea e sul senso dell’esistenza inquadrata nei paradigmi della postmodernità. Quattro opere nello specifico sollevano interessanti riflessioni in tal senso, come evidenziato da Claudio Siniscalchi in Immagini della desocializzazione, un saggio uscito alcuni anni fa che brilla ancora per completezza e attualità d’analisi: Somewhere (2010) di Sofia Coppola, Into the Wild – Nelle terre selvagge (2007) di Sean Penn, The Tree of Life (2011) di Terrence Malick e This Must Be the Place (2011) di Paolo Sorrentino. Quattro film, quattro storie, quattro risposte alla crisi valoriale dei nostri tempi di fronte alla quale i protagonisti delle pellicole in esame reagiscono in modo diverso.

Il personaggio principale di Somewhere, Johnny Marco (Stephen Dorff), resta a guardare quello che gli succede, come uno spettatore non pagante. Osserva il flusso della vita scorrergli accanto. È ricco, giovane, bello. Fa l’attore, gode di tutti gli agi immaginabili. Abita nella suite di un hotel. Ma è solo. Vive in mezzo a molte altre persone, ma non conosce nessuno. Nel film della Coppola la solitudine dell’uomo contemporaneo cessa di essere un concetto astratto e si materializza. La «folla solitaria» di David Riesman esce dalle pagine di un libro per farsi film. Johnny non si risparmia: fuma, beve, si droga. Cerca di colmare il vuoto che si porta dentro, ma non sa quale strada intraprendere. Cerca conforto negli antidepressivi. È separato, ha una figlia, Cleo, che non vede da anni. Nemmeno l’incontro con il suo passato, che assume il volto giovane di Elle Fanning, lo desta da questo torpore spirituale. Vittima (o prodotto) della desocializzazione, il materialismo ha corrotto la sua anima. La parabola di Johnny è ciclica: nella prima scena lo vediamo alla guida di una Ferrari nera su una strada circolare completamente deserta. Dopo diversi giri di pista, scende e si guarda intorno. Nell’ultima sequenza è di nuovo da solo, al volante del suo bolide, impegnato a guidare verso il nulla. Ha salutato la figlia senza riuscire a tranquillizzare l’angoscia della ragazzina, preoccupata dinanzi alla prospettiva di essere abbandonata di nuovo. Non c’è spazio per una vera, autentica riconciliazione. Sofia Coppola si limita a fotografare la realtà, scegliendo di non giudicarla. Mostra le cose per quelle che sono. I suoi personaggi restano identici a loro stessi, non si assiste a nessuna trasformazione. Anche in The Bling Ring, realizzato tre anni dopo Somewhere, i protagonisti – un gruppo di ragazzi dediti ai furti nelle ville di attori e personaggi televisivi – non cercano alcuna soluzione al vuoto delle loro esistenze, continuando meccanicamente a ripetere le stesse azioni, come l’apatico Johnny Marco.

Se Sofia Coppola non è interessata a fornire risposte e soluzioni, Sean Penn in Into the Wild compie un passo in più. Anche in questo caso il protagonista (Christopher McCandless, interpretato da Emile Hirsch) è giovane, benestante, di bell’aspetto. Può contare su una famiglia che lo supporta, è circondato dagli amici ed è brillante negli studi. Eppure non è soddisfatto della sua vita. Dopo essersi laureato all’Università di Emory, decide di abbandonare tutto e di andare in Alaska. Si perde nelle terre selvagge. Armato di uno zaino dove ha messo lo stretto necessario, sfida le forze della Natura. Il suo ritorno alle origini lo porterà alla morte. Solo e affamato, avrà la sfortuna di cogliere i frutti velenosi di una pianta selvatica che aveva scambiato per commestibili. Morirà dopo un’atroce agonia. Ma non si pentirà delle sue scelte, nemmeno in punto di morte. Troverà la pace, riconciliandosi con i genitori che in precedenza aveva condannato, abbandonando il mondo civilizzato e borghese rappresentato dal rassicurante focolare domestico. Ha deciso di cercare le risposte alle sue angosce fuggendo, allontanandosi dall’umanità.

La Natura come forza creatrice primigenia è centrale anche nel film di Terrence Malick The Tree of Life. Un uomo, Jack O’Brien (Sean Penn), racconta la sua vita. È cresciuto seguendo due esempi: quello della madre (dolce, timida, accondiscendente) e quello del padre (severo, austero, religioso). In sintesi, la Via della Grazia e la Via della Natura. Ripensa alla sua infanzia e nel flusso ininterrotto dei suoi pensieri, si sforza di rintracciare il senso delle cose. Cosa c’è alla base dell’esistenza? Cosa rende possibile la vita? La risposta del protagonista, alter ego di Malick, filosofo prestato al cinema, si chiama Natura: è lei che tutto avvolge e unisce. Il film, ambiziosamente, risale indietro nel tempo, fino al brodo primordiale del Big Bang. Entrano in scena persino i dinosauri. Un filo rosso unisce tutti gli stadi dell’evoluzione umana: si tratta delle forze della Natura, ora brutali come una cascata, ora dolci come il vento. Dio è sostituito dal trascendentalismo panteista di Ralph Waldo Emerson ed Henry David Thoreau, radici americane del vitalismo filosofico di Nietzsche di cui Malick è un esponente cinematografico. Quando Jack capisce che è nella Natura che deve cercare le risposte alle sue domande, trova la pace interiore. Nel finale attraversa una porta e si ritrova su una spiaggia. Cammina in mezzo a tante persone e incontra sua madre, suo padre, i fratelli. Anche lui, come il ribelle di Into the Wild, ha perdonato i suoi genitori. Ora il senso della vita si dischiude davanti ai suoi occhi, assumendo le sembianze di una distesa di sabbia e acqua. Malick ci mostra il Dio-Natura, rendendolo immagine: è questo il trascendentale – la condizione di possibilità – dell’esistenza. E l’unica strada che porta alla felicità.

La quarta via, la quarta risposta al vuoto dell’esistere contemporaneo, ci è fornita da Paolo Sorrentino. In This Must Be the Place assistiamo a un processo di rinascita, al trasformarsi di una maschera in un uomo. Cheyenne (Sean Penn), il protagonista della pellicola, è una rockstar che da tempo ha imboccato il viale del tramonto. Vive isolato in una grande casa. Si è esiliato dal mondo. Ogni mattina si alza e si trucca con un fard nero, come se dovesse salire sul palco. È imprigionato dentro un personaggio che non lo rappresenta più, ma non sa come uscire dalla farsa che lui stesso ha creato. Anni addietro, ascoltando la sua musica, due giovani fan si sono suicidati. Il senso di colpa e una sensazione di inadeguatezza impediscono a Cheyenne di tornare sulle scene. La sua vita avanza per forza d’inerzia. A scuoterlo dal prolungato torpore giunge, inaspettata, la notizia della morte del padre, che non vede da molti anni. Cheyenne scopre che l’anziano genitore aveva dedicato gli ultimi decenni della sua vita a rintracciare l’aguzzino nazista che lo aveva tenuto prigioniero in un campo di concentramento. Decide di proseguire la ricerca iniziata dal padre. Compie un lungo viaggio, colmo di odio e di rancore, nel corso del quale si imbatte in una serie di incontri casuali. Quando giunge dinanzi al carceriere del genitore, ridotto ormai uno scheletro, decide di non ucciderlo. Lo umilia, come l’ex ufficiale nazista aveva fatto con le sue vittime, denudandolo e lasciandolo vagare in un deserto salato. Lo ha perdonato? No. In realtà, ha fatto pace con se stesso e con il proprio passato. Ha completato la parabola del padre. Cheyenne, adesso, è un uomo rinnovato. La trasformazione interiore si riflette nel suo aspetto fisico: quando fa ritorno nella cittadina di provincia irlandese dove è ubicata la sua enorme casa, le persone non lo riconoscono. Il viso è tornato quello di un uomo, non c’è più traccia del trucco gotico che lo appesantiva. Siamo passati dal vuoto alla speranza. Una maschera è scomparsa, lasciando spazio a una persona. Cheyenne non contempla apaticamente il nulla del suo vivere, come il Johnny di Somewhere, e non disperde la sua essenza in un indefinito Dio-Natura, come i protagonisti dei film di Malick e di Penn. Rincorre un cambiamento che trova all’interno di sé, riumanizzandosi. Il viaggio che compie descrive una parabola edificante e positiva, che non sembra azzardato definire cristiana, ben distante dalle pulsioni antiumaniste tipiche della surmodernità, che dai non-luoghi di Marc Augé ha partorito le non-persone. In The Ahuman Manifesto: Activism for the End of the Anthropocene, Patricia McCormack – paladina del postumanesimo – arriva a considerare l’estinzione della razza umana come la migliore delle ipotesi al fine di salvare il pianeta Terra: un’autentica aberrazione. Tale senso di colpa, tratto tipico dell’Occidente secolarizzato, ha condotto agli eccessi del transumanesimo, per il quale l’uomo – sostituendosi a Dio – tutto può sperimentare, senza più limiti e confini, finendo addirittura per ibridare il proprio corpo con le macchine. In This Must Be the Place, invece, assistiamo proprio alla rinascita di un essere umano, che si libera di ogni fardello e ritrova la propria essenza.

Non sempre nei film di Sorrentino si assiste a una traiettoria di redenzione, ma la ricerca del cambiamento è sovente una caratteristica dei suoi personaggi. Provano a rimettere insieme i pezzi della propria esistenza Antonio e Tony Pisapia (Andrea Renzi e Toni Servillo), un ingenuo calciatore e un cantante dissoluto e cocainomane attorno ai quali ruota L’uomo in più (2001), ma i loro tentativi non sortiscono che nuovi fallimenti, così come fallisce Titta Di Girolamo (Toni Servillo), contabile esiliato dalla mafia in un paesino della Svizzera a riciclare il denaro sporco, soffocato dai sicari di Cosa Nostra nel cemento liquido ma felice di aver provato, prima di morire, dopo lunghi anni di noia e alienazione, lo sconvolgimento di un sentimento vero e forte per la cameriera dell’albergo nel quale è costretto a trascorrere placidamente la sue giornate in Le conseguenze dell’amore (2004). Evolve più marcatamente, e in positivo, Jep Gambardella (Toni Servillo), lo scrittore bohémien protagonista de La grande bellezza (2013), autore in gioventù di un romanzo che lo aveva reso ricco e famoso, oramai perso tra feste, alcol ed eccessi di ogni genere, circondato dal cinismo dell’aristocrazia romana. Ma proprio in quel milieu così decadente riesce a trovare la forza per ripartire, cogliendo l’ispirazione per un nuovo libro nel quale condensare «gli sparuti incostanti sprazzi di bellezza» che la vita dispensa, celandoli dietro «il chiacchiericcio e il rumore, il silenzio e il sentimento, l’emozione e la paura». Il film si chiude su queste parole, che segnano la nascita di una persona nuova: «Altrove c’è l’altrove. Io non mi occupo dell’altrove. Dunque, che questo romanzo abbia inizio. In fondo è solo un trucco. Sì, è solo un trucco». La trasformazione che in Gambardella è in fase germinale, fiorisce in tutto il suo splendore nel personaggio di Cheyenne, che si libera di ogni artificio e ritrova se stesso. Un tratto narrativo che, con l’andare degli anni (e dei film), anche Sorrentino sembra avere smarrito lungo la via.

Valerio Dardanelli

Fondatore della casa editrice Ardente Edizioni, specializzata nella saggistica relativa al campo degli studi umanistici. Giornalista professionista, è altresì curatore di una raccolta di saggi, pubblicata a cadenza annuale dalla casa editrice Arbor Sapientiae all’interno della collana scientifica «Ipazia». Ricercatore indipendente nei campi della storia del cinema, del pensiero politico e della storia contemporanea. Per contatti: valeriodardanelli@lacittaimmaginaria.com