Ciò che l’immagine unisce, non può essere separato nemmeno dal fato. Ma le fotografie che mostrano insieme Julien e Florence nel finale dell’opera prima di Louis Malle, quel ricordo cui la donna si aggrappa con tutta se stessa, sembrano cadere nell’oblio ancor prima dei titoli di coda. Solamente il cinema non dimentica. Ascensore per il patibolo (1958) adatta con rigore formale e notevole arguzia l’omonimo romanzo di genere di Noël Calef (pubblicato nel 1956) e ne fa qualcosa di completamente diverso: l’intrigo giallo viene, infatti, disossato e diluito sulle note improvvisate dalla tromba di Miles Davis. Così la solitudine e l’angoscia diventano il perno di un movimento estetico ed esistenziale, un costante e disilluso pianto sugli spettri del dopoguerra francese. Un movimento circolare che inanella tempi e spazi e ne annulla le logiche naturali a vantaggio di quelle drammaturgiche.
Sarà poi il montaggio a ricostruire le dinamiche dei rapporti, avvicinando o separando i personaggi nelle zone d’ombra e luce suggerite dalla regia. A cominciare dal viso di Jeanne Moreau, novella diva non più giovanissima ma rivelata veramente solo con questo film, grazie al primo piano che apre la pellicola e al dialogo telefonico con cui veniamo a conoscenza della relazione col protagonista. Un nuovo divismo, il suo, che prende le mosse dalla classicità di Marlene Dietrich o di Greta Garbo, dall’eterea fatalità della “femme” tra le due guerre, per rinunciarvi quando è necessario alzarsi dalla sedia del Caffè e andare alla ricerca dell’amato con sguardo perso e bocca tremante. Che cosa pensa Florence mentre attraversa la notte parigina? Non lo sapremo mai davvero. Possiamo solo lasciarci cullare dalla malinconica musica jazz che l’accompagna e magari perderci con lei in questa ballata. Lo stesso sembra fare la macchina da presa, abbandonata in lunghe carrellate senza meta.
Ma tornando alle logiche spaziali, hanno parte certamente rilevante quegli stacchi che abbinano luoghi e avvenimenti anche distanti: per esempio il momento in cui la la donna raggiunge il palazzo in cui si trova rinchiuso Julien e si avventa contro il cancello come a voler tentare di scardinarlo a mani nude. L’uomo sente dei rumori e così si affaccia allo spiraglio che ha aperto verso l’esterno dell’ascensore. I due non posso vedersi, ma il montaggio ce li mostra per un attimo uniti, come per magia, così vicini eppure così lontani. E la scrittura per immagini può riservare sorprese anche dove non crediamo di poterne trovare. Quello stacco – ovvio e necessario – che dalla strada ci porta alle scale della casa della fioraia, dove gli altri due giovani si rifugiano e tentano (senza successo) di togliersi la vita, rivela una sicurezza di intenti formali più concreta di quanto l’impressione di maniera può far sospettare. Non si lascia il tempo al dubbio e, nel giro di qualche inquadratura, i due personaggi si ritrovano a un passo dalla morte. Tutto è vano, sembra ancora volerci dire Malle.
Niente è come appare in questo mondo; e non c’è posto per la sincerità, per la tenerezza. Il contributo dello scrittore Roger Nimier alla sceneggiatura si innesta proprio in questa direzione: accentuare il contrasto tra la passione amorosa e il monotono scorrere della quotidianità. Ma l’intervento trova la sua reale incisività nel discorso politico – o meglio nella sua assenza – in occasione dell’incontro coi tedeschi al motel. Quel discorso è appena accennato, quindi, in qualche modo costantemente disinnescato. Di certo desensibilizzato, come le reazioni insofferenti del ragazzo alla presenza dell’ex occupante in veste di turista. Una maschera risibile dietro la quale si nasconde la vulnerabilità di una generazione – che visse l’infanzia in guerra – cui lo stesso regista, all’epoca venticinquenne, apparteneva pienamente.

Alessandro Amato
Nato a Milano, conclude gli studi a Torino, dove continua a lavorare nell'ambito critico e festivaliero. Collabora con "A.I.A.C.E." e il magazine "Sentieri Selvaggi". Dirige rassegne di cortometraggi e cura eventi per la valorizzazione del cinema italiano. Quando capita è anche autore di sceneggiature per la casa di produzione indipendente "Ordinary Frames", di cui è co-fondatore.