CinemaPrimo PianoIl cielo in una stanza: gli anni Novanta dei Vanzina, tra inquietudini e trivialità (parte 1)

Alessandro Amato10 Settembre 2019
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Senza Enrico Vanzina non ci sarebbe mai stato Mediterraneo (1991) di Gabriele Salvatores. Ci credereste? Eppure è la verità. A quel tempo, infatti, lo sceneggiatore romano, autore col fratello Carlo di pellicole come Vacanze di Natale (1983) e Yuppies (1986), era stato nominato direttore di produzione della Penta Film, società nata da un fragile sodalizio fra il gruppo Berlusconi e la famiglia Cecchi Gori e dall’assorbimento temporaneo della Medusa Distribuzione. L’idillio non durò molto, ma permise almeno di sviluppare un progetto di quattro anni per produzioni interne, collaborazioni con soggetti esterni e soprattutto per la distribuzioni di film esteri, in particolare blockbuster statunitensi. Infatti, grazie alla Penta, sono arrivate da noi grandi produzioni quali Atto di forza (1990), Basic Instinct (1992) e molti altri titoli di primo piano. In tutto questo, il ruolo di Vanzina era importantissimo, in quanto amico sia di Vittorio Cecchi Gori che di Silvio Berlusconi e quindi in grado di mediare fra le due parti. Tra le sue mansioni, vi era anche quella di scegliere le sceneggiature più interessanti da realizzare direttamente, senza servirsi di altre realtà produttive. L’idea alla base di Mediterraneo lo appassionò per un motivo molto semplice: gli ricordava un film del padre Steno. In effetti, anche nella pellicola I due colonnelli (1963) c’era un paesello della Grecia invaso in successione da italiani e da inglesi e un paio di scapestrati soldati che non amavano la guerra e diventavano amici della gente del posto. È chiaro che poi Salvatores gli avrebbe dato dignità da Oscar, ma lo spunto era da Commedia all’italiana poiché già negli anni d’oro del nostro cinema si era rivelata la natura degli italiani, tutt’altro che conquistatori.

Ma al di là di questo incontro prettamente incidentale, i rapporti dei fratelli con Salvatores non sembrano esaurirsi qui. In primo luogo, c’è Diego Abatantuono, che il regista napoletano naturalizzato milanese ha ereditato direttamente dal cinema vanziniano del decennio precedente. E poi salta all’occhio la vicinanza della “tetralogia della fuga” – costituita da Mediterraneo insieme a Marrakech Express (1989), Turné (1990) e Puerto Escondido (1992) – alla poetica dell’evasione presente anche nel suggestivo Sognando la California (1992) dei Vanzina. Guardati tutti insieme, senza azzardare confronti o cercare similitudini stilistiche, questi film danno l’impressione di esprimere un comune sentire generazionale, ovvero di incarnare la riflessione storica di una determinata generazione, alla quale Gabriele Salvatores, Carlo ed Enrico Vanzina appartengono e alla quale si rivolgono: quella che agli inizi degli anni Novanta si scopre distante da qualsivoglia impegno politico. E a pensarci meglio, alcuni dei lavori dei Vanzina degli anni Novanta si presterebbero a una rilettura su questa traccia. Infatti, i loro personaggi lamentano spesso la noia del quotidiano allo scopo di riaffermare il bisogno di un rifugio nell’immaginazione e finiscono col vivere avventure rocambolesche. A cominciare dalla principessa Sofia in Piccolo grande amore (1993), la quale è cresciuta in un castello che da luogo fiabesco si trasforma in prigione del sentimento e così non vede altra opzione che fuggire in Sardegna, dove incontra un bel bagnino col quale è amore a prima vista. Ma lo stesso vale per Paolo Villaggio in Io no spik inglish (1995) e la coppia formata da Massimo Boldi e Christian De Sica nel dittico composto da A spasso nel tempo (1996) e A spasso nel tempo – L’avventura continua (1997).

Discorso a parte meriterebbe Selvaggi (1995), orientato com’è a rimettere in scena la schizofrenica contemporaneità sociale del Paese su un’isola del Pacifico senza legge né potere. In quest’opera, i Vanzina propongono l’ennesima parabola sulla povertà di spirito di un presente votato all’affermazione individuale e pervaso da una certa ambiguità morale. Ma naturalmente i fratelli lo fanno con le spalle coperte da produttori come Aurelio De Laurentiis e Fulvio Lucisano, e rassicurati dai mezzi distributivi di Medusa-Mediaset, quindi ridimensionando quella lettura del mondo sui canoni rappresentativi commerciali e cannibalizzando l’immaginario filmico internazionale, attraverso un citazionismo facile e spesso triviale.

Alessandro Amato

Nato a Milano, conclude gli studi a Torino, dove continua a lavorare nell'ambito critico e festivaliero. Collabora con "A.I.A.C.E." e il magazine "Sentieri Selvaggi". Dirige rassegne di cortometraggi e cura eventi per la valorizzazione del cinema italiano. Quando capita è anche autore di sceneggiature per la casa di produzione indipendente "Ordinary Frames", di cui è co-fondatore.