CinemaPrimo PianoIl canto della consuetudine: “Paterson” di Jim Jarmush

Nadia Pannone10 Gennaio 2020
https://lacittaimmaginaria.com/wp-content/uploads/2020/01/eefefewfew.jpg

Definito come il regista americano indipendente per eccellenza, nel corso della sua carriera Jim Jarmush ha fatto del silenzio e dell’anti-spettacolarità un tratto distintivo della sua opera. In quest’ottica, Paterson (2016) si presenta come la precisa figurazione della sua poetica, in quanto capace di fotografare con onestà i gesti della consuetudine e di riconsegnarli al pubblico arricchiti da un manto di poeticità.

La pellicola, infatti, altro non fa che mostrarci una delle tante settimane che scandiscono la pacata esistenza di Paterson (Adam Driver), un autista di autobus della cittadina di Paterson, in New Jersey. L’omonimia tra personaggio e luogo non è un caso, come non lo è il fatto che William Carlos Williams – famoso poeta vissuto a Paterson – abbia intitolato così una delle sue maggiori opere. La città rispecchia la ripetitività delle mosse del protagonista, tutti i giorni analoghe ma mai del tutto identiche: ogni mattina Paterson si sveglia tra le 6 e le 6:30, ma mai nello stesso identico orario; è abbracciato alla sua compagna Laura (Golshifteh Farahani), ma mai nella stessa posizione; ascolta stralci di conversazioni tra i passeggeri dell’autobus e assiste con stupore alla creatività della sua amata, in continua evoluzione. La sua vita, così come quella della cittadina, si ripete ogni giorno in una monotona routine; eppure deve esserci un elemento che faccia la differenza, che conferisca al film quella potenza emotiva di cui è dotato. Quell’elemento è la poesia, che scaturisce dai dettagli.

Sono proprio i dettagli ad assegnare unicità alle giornate tutte uguali e a far sì che dalla banalità possa nascere l’arte. Paterson assorbe l’essenza del luogo con cui condivide il nome, lo interiorizza attraverso le piccole cose, lo sente erompere dentro di sé come la meravigliosa cascata che rappresenta il maggiore punto attrattivo di Paterson, nonché fonte di ispirazione di poeti, dal grande Williams alla piccola poetessa in erba che allieta una delle giornate di Paterson leggendogli la sua poesia Water Falls. Una scatola di fiammiferi, delle conversazioni origliate, la solita birra ordinata al bar dopo la passeggiata con il bulldog Marvin: Paterson si serve di particolari apparentemente insignificanti per dare colore alla sua vita, così come delle pennellate di vitalità tracciate da Laura che, seppur limitandosi ai soli colori bianco e nero (una predilezione, la sua, che ricalca quella dello stesso regista), sottintendono un’infinità di altre sfumature. Anima gemella ma – al contempo – antitesi di Paterson, Laura riempie ogni sua giornata con un nuovo atto creativo, una nuova passione che probabilmente non la condurrà a nulla di concreto ma che le permette di vivere pienamente un’esistenza altrimenti piatta. Allo stesso modo, supporta con fervore la vena poetica del compagno e lo sprona di continuo a concretizzarla, a far in modo che i suoi versi non rimangano solo nel suo taccuino.

Ma per Paterson il linguaggio non è un mezzo per esprimere se stesso e per mostrarsi al mondo intero, bensì un luogo sicuro e intimo in cui rifugiarsi e che – in quanto tale – deve rimanere privato. «Parole scritte sull’acqua», già solo l’atto di copiarle contribuirebbe ad affievolire la loro autenticità. Tuttavia, così come Laura, opponendosi a Paterson, lo aiuta a trovare un equilibrio, così lo splendido dialogo finale con un turista giapponese lo mette davanti a quella che potrebbe essere un’altra parte di sé, quella che ha osato, che ha viaggiato per cercare nuove ispirazioni e che non ha paura a definirsi un poeta. «A volte le pagine vuote offrono le maggiori possibilità»: i piccoli avvenimenti che scombinano la simmetria della vita di Paterson sono la dimostrazione che spesso i cambiamenti, seppur impercettibili, possono aprire la porta a nuove infinite occasioni.

Jarmush non ha timore di rischiare nel mettere in scena un tipo di narrazione tutt’altro che accattivante, almeno per il grande pubblico. Le situazioni si susseguono (praticamente) senza conseguenze, rivelandosi solo stralci di realtà che esistono e trovano il proprio scopo esclusivamente lungo la durata della propria realizzazione. Una sera Paterson beve una birra al pub e sta seduto da solo, mentre gli altri sono impegnati nelle proprie attività. Guarda la birra. Dissolvenza. Tutto qui, proprio perché la vita è “tutto qui”. Nella sua piattezza, un momento di pura realtà. Sta allo spettatore, dunque, prestare attenzione ai particolari più trascurabili e – attraverso di essi – ricomporre la poesia della pellicola; così come lo stesso regista ama partire dai dettagli per giungere alla storia, e mai il contrario. Non si faticherà molto, comunque, se si individueranno nei gesti ripetitivi del protagonista quelli che caratterizzano la nostra stessa quotidianità e se si riconoscerà un momento di lirismo e pura bellezza nei versi poetici che cadenzano il suo tempo, declamati dalla voce profonda di Driver e accompagnati dalla musica ipnotica degli Sqürl, la band di cui fa parte lo stesso Jarmush. La poesia, per quanto ardua da afferrare e ritrarre, trova in Paterson un “corpo” e una chiara aspirazione: quella di immortalare fugaci momenti e pensieri, in modo che la loro unicità possa cristallizzarsi e durare nel tempo, al fine di ricordarci che anche nel nulla, una volta, abbiamo trovato il tutto.

Nadia Pannone

Basta poco a renderla felice: un buon film, un po' di musica anni Ottanta, una libreria, qualche conversazione stimolante, un lago, delle luci al neon, una piazza deserta e assolata, delle foto vintage, una coperta e un buon caffè.