ArtePrimo PianoI Pilastri dell’Arte: tre capolavori napoletani di Caravaggio

Martina Scavone3 Aprile 2022
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Michelangelo Merisi detto Caravaggio (Milano, 29 settembre 1571 – Porto Ercole, 18 luglio 1610) fu indubbiamente uno degli artisti più discussi e controversi della storia. Il suo animo impetuoso e ribelle gli procurò non pochi problemi, ma quell’indole irrequieta fu la stessa che lo portò altresì a concepire dei veri capolavori, che si ritiene abbiano spianato la strada alla nascita del Barocco e della pittura moderna. Data cruciale per l’arte e la vita di Caravaggio fu il 28 maggio 1606: colpevole di aver colpito a morte Ranuccio Tomassoni durante una rissa e condannato a morte, da allora fu costretto a una fuga continua per scampare alla pena capitale. Dapprima trovò rifugio nei dintorni di Roma – nel contado della famiglia Colonna (Marino, Palestrina, Zagarolo e Paliano) – e dopo qualche mese di latitanza nei territori dello Stato Pontificio raggiunse Napoli, capitale del vicereame.

Ottavio Leoni, Ritratto di Caravaggio, 1621 ca., carboncino nero e pastelli su carta blu, 23,4 × 16,3 cm, Firenze, Biblioteca Marucelliana

Il periodo napoletano si ascrive dunque agli ultimi anni di vita del pittore: egli vi giunse una prima volta nel 1606, rimanendovi per circa un anno e soggiornando ai Quartieri Spagnoli, e una seconda volta sul finire dell’estate del 1609. In quest’ultima circostanza si trovò coinvolto in una violenta rissa all’uscita della Locanda del Cerriglio, in seguito alla quale rimase sfigurato e cominciò a circolare la notizia della sua morte. Ma procediamo con ordine: durante il primo soggiorno napoletano di Caravaggio la sua fama era già ben nota, tanto che i Colonna lo raccomandarono a un ramo collaterale della famiglia residente a Napoli, i Carafa-Colonna. Questo fu, per il Merisi, un periodo particolarmente fecondo, in cui eseguì innumerevoli opere, come una prima versione della Flagellazione di Cristo (1607), conservata presso il Musée des Beaux-Arts di Rouen; la Salomè con la testa del Battista (1607), oggi alla National Gallery di Londra; la prima versione di Davide con la testa di Golia (1607), conservata al Kunsthistorisches Museum di Vienna; la Madonna del Rosario (1606-1607), che si ipotizza sia stata commissionata dai Carafa-Colonna per esser collocata nella cappella di famiglia nella chiesa di San Domenico Maggiore, ma che fu poi venduta e portata prima nelle Fiandre e poi a Vienna, dove si trova attualmente. Fortunatamente, non a tutti i dipinti realizzati dal maestro in questa fase toccò la medesima sorte: esistono, infatti, due capolavori concepiti da Caravaggio durante il suo primo soggiorno napoletano che non hanno mai lasciato la città. Il primo è il gigantesco Sette opere di Misericordia (1606-1607), un olio su tela realizzato per l’istituto della Congregazione assistenziale del Pio Monte della Misericordia (dove si trova tuttora) poiché fu proprio grazie all’intercessione di questi ultimi (tra cui spicca il nome di Luigi Carafa-Colonna) che lo stesso Caravaggio riuscì a scappare da Roma indenne.

Caravaggio, Sette opere di Misericordia, 1606-1607, olio su tela, 390×260 cm, Napoli, Chiesa del Pio Monte della Misericordia

La peculiarità di tale dipinto consiste nell’aver stravolto l’iconografia classica in quanto le “sette opere di Misericordia corporali” sono qui condensate in un’unica scena anziché essere raffigurate separatamente, come tradizione voleva. Se la parte superiore della tela è dedicata alla Vergine, inserita per volere dei committenti insieme agli angeli e a Gesù Bambino, la parte inferiore immortala le vere protagoniste dell’opera, ossia le sette opere di Misericordia: dar da mangiare agli affamati; dar da bere agli assetati; vestire gli ignudi; dare rifugio ai pellegrini; visitare i malati; visitare i carcerati; seppellire i defunti. Infatti, stando al Vangelo di Matteo, sette sarebbero il numero di richieste fatte da Gesù per ottenere il perdono dei peccati e accedere al Paradiso. Caravaggio interpreta questo passo del Vangelo in un eccezionale lavoro di sovrapposizione e condensazione: realizza un grande quadro corale in cui le figure sono dipinte dal vero e a grandezza naturale, talmente vorticoso e teatrale da sembrare il ritratto “in presa diretta” di un colorato vicolo napoletano.

Caravaggio, Sette opere di Misericordia, 1606-1607, part. Cimone e Pero (dar da mangiare agli affamati e visitare i carcerati), Napoli, Chiesa del Pio Monte della Misericordia

Il risultato è un’opera estremamente articolata e densa di riferimenti alla mitologia e alla cultura classica, come ad esempio la figura di Cimone, identificato con l’uomo che si sta nutrendo dal seno della donna, il quale – secondo la storia – venne condannato a morire di fame all’interno del carcere. Tuttavia, riuscì a salvarsi grazie al nutrimento che gli venne fornito dal seno della figlia Pero (un’azione che incarna perfettamente il “dar da mangiare agli affamati” e “visitare i carcerati”). Oppure ancora la figura di Sansone, identificata nell’uomo con la barba che beve, così come vuole la leggenda, dalla mascella d’asino: un dettaglio estrapolato dall’aneddoto secondo cui Sansone riuscì a sopravvivere nel deserto grazie al Signore, il quale fece sgorgare acqua dal nulla (e che, nel dipinto in questione, è evidentemente metafora del “dar da bere agli assetati”).

Caravaggio, Sette opere di Misericordia, 1606-1607, part. Sansone (dar da bere agli assetati), Napoli, Chiesa del Pio Monte della Misericordia

Il secondo dipinto rimasto a Napoli è un altro olio su tela di dimensioni monumentali, ovvero la seconda versione della Flagellazione di Cristo, eseguita tra il 1607 e il 1608 per la chiesa di San Domenico Maggiore e poi spostata al museo di Capodimonte. L’opera venne commissionata a Caravaggio da Tommaso De Franchis, la cui famiglia – nobilitata nel 1610 – aveva una cappella nella sopraccitata chiesa napoletana. Basato principalmente su un dipinto dello stesso soggetto di Sebastiano del Piombo, l’iconografia rispetta alla perfezione quella classica, con il Cristo legato alla colonna e i tre torturatori attorno a lui. La sola novità è rappresentata dal fatto che, in questo caso, Gesù indossa già la corona di spine che invece, secondo la tradizione, gli fu imposta solo dopo la flagellazione.

Caravaggio, Flagellazione di Cristo, 1607-1608., olio su tela, 286×213 cm, Napoli, Museo di Capodimonte

Numerosi sono i pentimenti ravvisati in questo tenebroso quadro: tra questi, la copertura di un ritratto maschile, probabilmente del committente, che si trovava all’altezza della muscolosa spalla del flagellatore di destra. In generale, si tratta di un’opera molto violenta, quasi brutale, in cui tuttavia è presente una padronanza del gioco di luci e ombre tipica del Merisi, che la impiega magistralmente per plasmare i volumi delle gigantesche figure ed esprimere la scena con grande realismo. Tutta la composizione ruota, inoltre, intorno alla colonna, il che consente a Caravaggio di mettere in risalto il contrasto tra la ferocia degli aguzzini – dalle espressioni deformate dall’ombra – e la pazienza di Cristo che, assorto in una serena meditazione più che sofferente, cattura tutta la luce del quadro fino a risplenderne, come se fosse una lanterna.

Il terzo e ultimo capolavoro caravaggesco realizzato e ancor oggi conservato a Napoli è Il Martirio di Sant’Orsola (1610), considerato l’ultimo dipinto del Maestro. Egli, come già anticipato, tornò una seconda volta nel capoluogo campano nell’estate del 1609, dopo due anni – come di consueto tormentati – trascorsi a Malta e in Sicilia. La fase creativa di tale secondo periodo napoletano è ricostruita dagli storici con molte congetture: tra le opere sicuramente prodotte tra il 1609 e la sua morte si ricordano il San Giovanni Battista disteso (1610) appartenente a una collezione privata a Monaco di Baviera, la Negazione di san Pietro, il San Giovanni Battista, il Davide con la testa di Golia e, naturalmente, Il Martirio di Sant’Orsola, l’unico fra questi a essere rimasto nel medesimo luogo in cui fu realizzato. Eseguito per il banchiere genovese Marcantonio Doria, la cui famiglia riteneva di essere protetta da Sant’Orsola, è oggi conservato nel palazzo Zevallos Stigliano, facente parte – insieme alle Gallerie di Piazza Scala a Milano e a Palazzo Leoni Montanari a Vicenza – delle Gallerie d’Italia. Anche in questo caso, Caravaggio stravolge completamente l’iconografia classica al punto che per i contemporanei il soggetto non era immediatamente riconoscibile.

Caravaggio, Martirio di sant’Orsola, 1610, olio su tela, 143×180 cm Napoli, Galleria di palazzo Zevallos Stigliano

La scena rappresenta il tiranno Attila che trafigge con un dardo la vergine Orsola, colpevole di aver rifiutato il suo corteggiamento. Il colore livido della pelle di lei ne anticipa la morte, ma la sua espressione è rassegnata, quasi distaccata, come se fosse già al di sopra dei drammi terreni. Accanto alla donna, oltre al re degli Unni che sembra inorridito dal suo stesso gesto, compaiono altri tre uomini, i suoi servitori, uno dei quali ha il volto dello stesso Caravaggio, il quale assume un’espressione sconvolta, metafora della viva partecipazione alla tragedia che si sta consumando davanti ai suoi occhi. In quest’opera, come nelle precedenti, il contrasto cromatico è forte, ma qui sembra che l’autore abbia lasciato più spazio agli scuri, che aggiungono drammaticità alla scena. Secondo alcuni critici tale scelta è espressione anche del periodo difficile che in quegli anni il pittore stesso stava attraversando. Dopo la condanna a morte, l’artista per la prima volta era in procinto di ricevere una grazia. Di conseguenza, lasciò Napoli e lo fece così in fretta che alla partenza la tela non era ancora completamente asciutta, circostanza che è all’origine della sua problematica storia conservativa. Il dipinto arrivò a destinazione sano e salvo nel giugno del 1610 anche se l’accoglienza dei genovesi fu tiepida, quasi indifferente. Qui, nella città dei Doria, rimase fino al 1832 quando, a causa di complesse vicende ereditarie, rientrò a Napoli. In ogni caso, Caravaggio non fece mai in tempo a ottenere il perdono di Papa Paolo V, che stava preparando una revoca della condanna a morte. Da Napoli, infatti, si imbarcò su un traghetto nel luglio 1610 ma morì durante il viaggio in circostanze tutt’ora poco chiare.

Martina Scavone

Nata a Roma, classe ‘93. Si è laureata all’Università di Roma Tor Vergata: triennale in Beni Culturali e magistrale in Storia dell’Arte. Dopo un Master di II livello in Gestione dei Beni Culturali, ha iniziato a lavorare attivamente come curatrice e storica dell'arte. Ama leggere, viaggiare e l’arte in tutte le sue sfaccettature.