ArtePrimo PianoI Pilastri dell’Arte: “L’urlo” di Edvard Munch

Martina Scavone14 Agosto 2022
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«La mia pittura è in realtà un esame di coscienza e un tentativo di comprendere i miei rapporti con l’esistenza. È dunque una forma di egoismo, ma spero sempre di riuscire, grazie a lei, ad aiutare gli altri a vedere chiaro». Così l’opera più importante e famosa di Edvard Munch (1863-1944), Il grido o L’urlo, dipinta nel 1893, possiede un’evidente e dichiarata genesi in un particolare momento della vita del pittore norvegese, nella percezione reale di un sentimento universale che trasformò la visione personale di un tramonto in un incubo cosmico. Munch ne realizzò diverse versioni contraddistinte da pochissime varianti formali, ma in tutte ha affrontato la medesima tematica, ovvero il dramma esistenziale dell’uomo moderno. Infatti Il grido, oltre ad essere la prima manifestazione matura del linguaggio espressionista nordico, è un manifesto dell’intera esperienza umana, dalla nascita alla perdita, dall’amore all’ossessione, dalla solitudine alla morte.

E. Munch, L’urlo, 1893, olio, tempera e pastello su cartone, 91×73,5 cm Oslo, Galleria Nazionale

A precedere L’urlo è il dipinto Disperazione (1892), una sorta di preludio narrativo della vicenda emotiva dell’artista, ossia di quell’uomo senza volto che – attratto dal vuoto angosciante del paesaggio – si ferma ad ascoltarne il grido. Munch racconta così il fatto reale da cui trasse ispirazione per il quadro che, di fatto, è decisamente autobiografico: «Camminavo lungo la strada con due amici, quando il sole tramontò, il cielo si tinse all’improvviso di rosso sangue; mi fermai, mi appoggiai stanco morto a un recinto sul fiordo nerazzurro e sulla città c’erano sangue e lingue di fuoco; i miei amici continuavano a camminare e io tremavo ancora di paura e sentivo che un grande urlo infinito pervadeva la natura».

E. Munch, Disperazione, 1892, Stoccolma, Thielskagalleriet

Simbolo di tutta l’opera artistica di Munch e sintesi visiva universale dell’angoscia esistenziale dell’uomo, L’urlo sembra quasi una risposta a Schopenhauer, il quale nella Philosophie der Kunst aveva dichiarato che il limite della capacità espressiva di un’opera pittorica potesse essere la sua impossibilità di riprodurre il suono di un grido. Munch, pertanto, seguendo le teorie contemporanee della sinestesia, ossia della corrispondenza tra suono e colore, dimostra che la luce e gli impulsi pittorici sono in grado di tradurre un’impressione sonora. La figura terrorizzata in primo piano, quella sorta di teschio urlante, altro non è che l’essere umano ridotto alla sua essenza e l’impossibilità di determinarne l’identità ci permette di attribuirgliene una qualsiasi. In altre parole è “l’uomo”, è ciascuno di noi, è l’intera umanità. Il suo corpo molle e sinuoso, ci fa pensare più a uno spirito che non a un essere umano. Praticamente privo di naso e con lo sguardo terrorizzato e assente, apre la bocca come preda di uno spasmo innaturale e proprio l’ovale della bocca costituisce il vero centro compositivo del quadro. Il grido è una reazione istintiva, primordiale, profonda. La paura, il dolore, sono dentro di lui. Egli grida a tal punto che il paesaggio gli fa eco, deformandosi in onde sonore e travolgendo ogni elemento della natura: il cielo rosso sangue, striato di giallo e azzurro, il mare blu intenso che si fonde in tornanti ondosi intorno al fiordo, e persino il ponte che sembra scorrere via come un treno in corsa. Pertanto il suono orrendo e angosciante del grido deforma e risucchia il mondo reale e la stessa natura. Restano diritti solo il ponte e le sagome dei due uomini sullo sfondo, due spettrali e kafkiane figure in nero. Questi sono sordi e impassibili all’urlo che proviene dall’anima dell’uomo. Sono gli amici del pittore, incuranti della sua angoscia, a testimonianza della falsità dei rapporti umani. Quello del personaggio in primo piano sembra il grido di disperazione dell’uomo abbandonato da Dio, condannato a “esistere” in condizione di dolorosa libertà, che risuona nella cultura tedesca del romanticismo.

E. Munch, La madre morta e la bambina, 1897-99, Olso, Munch Museet

La creatura, resa incomunicabile al dolore, grida tappandosi le orecchie, non potendo sostenere l’intensità del proprio stesso urlo che risuona da dentro, allo stesso modo della sorella bambina di fronte alla tragedia silenziosa della morte della madre in La madre morta e la bambina (1897-99); oppure del gruppo di donne che tentano di difendersi dalla violenza e dall’ansia portata simbolicamente dal vento notturno ne La tempesta, del 1893.

E. Munch, La tempesta, 1893, New York, MoMa

Forse il pittore arrivò a concepire questo emblematico ed espressivo gesto delle mani che comprimono le orecchie ispirandosi all’atteggiamento di una mummia peruviana esposta nel 1889 al Museée de l’Homme di Parigi, che aveva ispirato anche Paul Gauguin (1848-1903).

Mummia peruviana, Parigi, Museée de l’Homme

Da questo momento, dal 1893 in poi, si può dunque affermare che Munch comincia a realizzare un costante rapporto di relazione tra pensiero e visione, una certa modalità di “espressione” dei sentimenti, delle pulsioni e dei pensieri umani in pittura, che rende gli elementi compositivi estremamente simbolici, le linee ritmiche e ondulate e il colore intenso, puro e “sonoro”. La frontalità dei personaggi, per esempio, caratterizza molte sue composizioni, rese da questo particolare angoscianti, magnetiche e teatrali. Così è in Angoscia (1894), in cui ritorna lo scenario de Il grido ma nel quale, però, i personaggi rimangono muti, immobili e spettrali, con i loro volti pallidi e i loro abiti borghesi, intenti a osservare intensamente gli spettatori come su una scena teatrale.

E. Munch, Angoscia, 1894, Oslo, Munch Museet

Una cosa è certa: L’urlo è un’opera ambigua, che suscita al contempo attrazione e repulsione, un’opera forse un po’ macabra ma pur sempre “vera”, in cui si rivendica il diritto di mostrare l’uomo nella sua fragilità. Sebbene possa piacere o meno, è impossibile metterne in discussione la capacità di trasmettere sensazioni universali e di toccare le corde più nascoste e profonde dell’animo umano. Tutti, nella nostra vita, ci siamo ritrovati almeno una volta a emettere un grido soffocato per riversare all’esterno un dolore che ci stava divorando dall’interno e che ritenevamo nessuno fosse capace di comprendere; tutti, almeno una volta, ci siamo sentiti soli, incompresi, risucchiati dalla nostra stessa angoscia e disperazione. Munch ha voluto rappresentare questa condizione del tutto comune e normale dell’essere umano, dandole forma, voce e persino un suono, un suono capace di deformare ogni cosa e perforare i timpani dello sventurato, che si copre le orecchie nel disperato tentativo di non sentire più “nulla”: né suoni, né dolore alcuno.

Martina Scavone

Nata a Roma, classe ‘93. Si è laureata all’Università di Roma Tor Vergata: triennale in Beni Culturali e magistrale in Storia dell’Arte. Dopo un Master di II livello in Gestione dei Beni Culturali, ha iniziato a lavorare attivamente come curatrice e storica dell'arte. Ama leggere, viaggiare e l’arte in tutte le sue sfaccettature.