La Natività di Gesù di Giotto non è solo una delle opere dedicate a questo tema più conosciute e popolari di sempre, ma si distingue anche per essere lo scrigno di una cospicua serie di simboli e riferimenti che verranno svelati nel presente articolo. Entrando nella splendida Cappella degli Scrovegni a Padova, non si può non restare ammirati dinanzi al meraviglioso ciclo di affreschi che riveste l’ambiente, realizzato da Giotto (1267-1337) tra il 1303 e il 1305 circa.

Fra questi, le Storie di Gesù, che ornano il registro centrale superiore della parete alla destra dell’altare e di cui fa parte la stessa Natività. Per quest’ultimo riquadro, Giotto si ispirò a varie fonti, tra cui i Vangeli, il Protovangelo di Giacomo e la Leggenda Aurea di Jacopo da Varazze. L’ambientazione prevede un sito roccioso, un contesto bucolico in cui si stagliano armoniosamente le figure di Maria e Gesù, affiancate da un personaggio la cui presenza all’interno di scene rappresentanti la Natività è alquanto insolita: una levatrice colta nell’atto di aiutare Maria a deporre Gesù, già fasciato, all’interno della mangiatoia. Il terzo personaggio su cui tende a cadere lo sguardo è poi Giuseppe, immortalato nella zona inferiore dell’affresco, con indosso una veste di colore marrone chiaro e la testa tra le mani: sul suo volto si nota immediatamente un’espressione sognante, dovuta all’incredulità di tutto ciò che sta accadendo intorno a lui in quel momento. Sul lato sinistro dell’affresco sono schierati il bue e l’asinello, rivolti verso Maria e il Bambino, mentre specularmente, sulla destra, due pastori di spalle vengono colti nel momento in cui un angelo annuncia loro quanto sta accadendo. Se ai piedi di questa sorta di baldacchino ligneo collocato su un declivio roccioso in cui sono adagiati Madre e Figlio giacciono altri animali, chiude la scena – in alto – un gruppo di quattro angeli, che pregano e si rallegrano per la venuta al mondo del figlio di Dio. Nell’intimità tra Maria e Gesù Bambino si coglie tutta la naturalezza, l’emozione e la tenerezza che legano una madre e il suo piccolo appena venuto al mondo, un aspetto che Giotto ha saputo rendere in maniera magistrale, evitando qualunque tipo di automatismo. Proprio la veste della Vergine attira la nostra attenzione, poiché il suo colore – un tempo azzurro lapislazzuli steso a secco – lascia intravedere il rosso sottostante, emerso a seguito del deterioramento subito nel corso del tempo.

Originale è il taglio prospettico dell’architettura, capace di rinnovare la statica tradizione bizantina dell’iconografia. Inoltre, la solidità delle figure, soprattutto quella della Madonna e di Giuseppe, richiamano i modelli scultorei di Giovanni Pisano. Delicate sono poi le tonalità dei colori, che spiccano sull’azzurro del cielo – in questo caso danneggiato al pari del panneggio di Maria – che si armonizza con le altre scene della cappella.
Veniamo ora ai codici gestuali e mimetici dei protagonisti, che rappresentano ed esprimono la simbologia di cui l’opera è pregna. La prima scena a celare un duplice significato è quella che vede protagonista il raccoglimento tra la Madonna e il Bambino: da una parte esprime tenerezza e protezione, dall’altra rappresenta un’offerta del proprio figlio al mondo, rappresentato per sineddoche dalla levatrice, che con cura tocca il neonato.

È poi Giuseppe a nascondere un preciso significato: infatti la disposizione di tale personaggio a una certa distanza da Maria non è casuale, ma vuole sottolineare la sua subordinazione rispetto al Padre Divino di Gesù e il suo ruolo non attivo nella procreazione. Inoltre, la presenza degli angeli è scandita dall’elemento sia iconografico che simbolico delle ali, che alludono alla loro leggerezza, incorporeità, nonché al loro ruolo di messaggeri divini, implicito riferimento al fatto che il Bambino stesso è un essere sovrannaturale, divino. E proprio i loro gesti, rappresentanti la preghiera al Cielo e a Gesù, sottolineano tale legame tra la materia, il corpo umano del Bimbo e la Spiritualità divina che gli vengono direttamente dal Padre, Dio Creatore. Il quinto angelo si afferma invece quale principale tramite tra la Divinità e l’Umanità, simboleggiata dai pastori, ammirati e sbigottiti dinanzi a tale manifestazione luminosa e spirituale. Anche gli animali presenti nella scena sono ricchi di simbologia, oltre che iconografici: il bue e l’asinello rappresentano infatti Ebrei e Gentili che assistettero alla venuta di Cristo senza comprenderla. Al contrario, il piccolo gregge ai piedi della struttura lignea personifica la Chiesa novella, l’umanità che verrà redenta dal suo Buon Pastore, seguendo le Sue indicazioni e venendo da Lui guidata e protetta. Segue l’immagine di Gesù Bambino, colto nell’atto di essere deposto – come tradizione vuole – all’interno di una mangiatoia, anch’essa simbolo di ben altro, ossia della povertà in cui ha deciso di calarsi. Tuttavia, con tale termine non si intende alludere alla miseria economica, quanto piuttosto alla misera condizione umana in cui Egli si è inserito volontariamente per riammetterla, con il Suo sacrificio, alla gloria immortale da cui proviene e che ha perduto con il Peccato Originale.
Lo stesso uso dei colori sottende un significato più profondo: l’azzurro lapislazzulo del manto di Maria simboleggia la Grazia divina, il mondo sovrannaturale che la Vergine ha deciso di accogliere nella sua vita, la sua calma e imperturbabilità, mentre il rosso di cui altresì la veste è composta ricorda il sangue di Gesù che verrà versato per l’umanità e il dolore che Lei stessa dovrà sopportare. Il giallo di cui è vestito Giuseppe evoca invece che proprio lì, in quella stalla, è appena avvenuto un cambiamento epocale, che trasformerà la storia e il destino dell’Uomo, o quantomeno di coloro che lo sapranno accettare. Il giallo è in effetti universalmente il colore del cambiamento, della trasformazione, e questo elemento rende lo statico Giuseppe uno degli elementi più dinamici dell’opera.
Infine, le aureole intorno al capo degli angeli, di Maria e di Giuseppe simboleggiano nient’altro che la loro santità, la loro condizione perfetta, superiore, ormai quasi completamente proiettata in una dimensione altra, sovrannaturale. Quella del Bambino presenta invece delle caratteristiche leggermente differenti, poiché è cruciforme, elemento volto a evidenziarne la natura e il futuro di mortale sacrificio cruento ma anche e soprattutto di sfolgorante vita gloriosa ed eterna.
Come quest’opera contribuisce a dimostrare, la Natività di Gesù Bambino è stata uno dei principali temi dell’arte cristiana a partire dal IV secolo. E sebbene nel corso dei secoli il tema si sia arricchito di particolari e di personali rivisitazioni da parte dei vari artisti che affrontarono tale soggetto, lo schema di riferimento è rimasto perlopiù invariato, nel tentativo di rievocare tramite immagine le parole delle principali fonti a cui i maestri attingevano al fine di ispirarsene e rendere al meglio una scena tanto importante nella storia della cristianità. Come recita il secondo capitolo del Vangelo secondo Luca, ai versetti 7-9: «Maria diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio. C’erano in quella regione alcuni pastori che, pernottando all’aperto, vegliavano tutta la notte facendo la guardia al loro gregge. Un angelo del Signore si presentò a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce».

Martina Scavone
Nata a Roma, classe ‘93. Si è laureata all’Università di Roma Tor Vergata: triennale in Beni Culturali e magistrale in Storia dell’Arte. Dopo un Master di II livello in Gestione dei Beni Culturali, ha iniziato a lavorare attivamente come curatrice e storica dell'arte. Ama leggere, viaggiare e l’arte in tutte le sue sfaccettature.