LetteraturaPrimo Piano“I Canti di Ossian”: agli albori del Romanticismo

Lucia Cambria13 Dicembre 2021
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A metà del XVIII secolo, uno scrittore scozzese di nome James Macpherson (1736-96) pubblicò delle opere attribuite a uno dei personaggi più misteriosi della storia della letteratura: il bardo gaelico Ossian. Questi è noto come l’autore originario di un ciclo di poemi epici, poi riportati alla luce nel Settecento sotto il nome I Canti di Ossian.

Macpherson ha dichiarato di aver raccolto questi poemi dagli originali in gaelico e di aver tradotto direttamente dalle antiche fonti. I critici, però, sono volti a credere che gran parte dei canti venne composta dallo scrittore, dopo aver in parte attinto da alcune poesie in gaelico. L’opera ebbe grande risonanza in Europa e venne tradotta in varie lingue. Per questo motivo funse da rilevante punto di partenza per lo sviluppo del Romanticismo.

I canti di carattere epico dei bardi delle Highlands scozzesi erano stati trasmessi grazie a dei manoscritti datati tra il XII e il XVI secolo, oltre che oralmente. James Macpherson nel 1760 decise di tradurre alcuni di questi brani in un volume anonimo intitolato Fragments of Ancient Poetry collected in the Highlands of Scotland and Ireland and translated from the Gaelic or Erse language (Frammenti di poesia antica originari delle Highlands scozzesi e dell’Irlanda e tradotti dal gaelico o dall’irlandese). Visto il successo di questi canti, Macpherson li ripubblicò l’anno successivo, scegliendo in questo caso di presentarsi ufficialmente come traduttore delle opere. L’edizione definitiva dei canti si ebbe nel 1773.

L’opera contribuì alla formazione di quell’insieme di immagini e di cornici che hanno costruito lo scenario del preromanticismo europeo. Molti degli elementi tipici di questa fase di transizione, e che poi si consolideranno nei primi decenni del secolo successivo, sono ben evidenti in questa raccolta di canti: il Nord come terra mitologica, la purezza dei guerrieri e, soprattutto, la melanconia e il sentimento di “Weltschmerz” che permeano dei versi caratterizzati da una certa libertà tecnica, propria della poesia istintiva e frutto dell’accesa fantasia tipica dei romantici. I canti sono infatti composti in una prosa ritmica, dal lessico semplice e ricca di metafore.

Le storie narrate contengono come motivi dominanti quelli della guerra, la virtù cavalleresca, il destino triste e melanconico degli amanti e descrizioni goticheggianti: paesaggi cupi, sconfinate distese di foreste e brughiere, mare in tempesta, arbusti piegati dal vento impetuoso e poi ancora tombe misteriose e senza nome. Si manifesta una malinconia avvolgente verso tutto ciò che riguarda il passato, in armonia col sentimento che ha pervaso soprattutto la seconda metà del Settecento: ovvero la ricerca di un ideale medievale, di un Medioevo – o, sarebbe meglio dire, un’attitudine a tutto ciò che concerne il Medioevo – che si è esteso dalle prime età barbariche fino a tutto il Rinascimento. Quindi anche William Shakespeare è, in questo senso, un autore medievale. Ci si proietta in un passato immaginario e mistico, colmo di attrattiva e di utopia.

Il successo dei canti ossianici fu talmente grande che qualunque scrittore in Europa risentì in qualche modo della loro influenza. In Germania scrissero versi “ossianeggianti” i poeti Friedrich Gottlieb Klopstock, Johann Gottfried Herder, Friedrich Schiller e anche Johann Wolfgang von Goethe, il quale scrive, nel suo I dolori del giovane Werther (1774), «Ossian ha preso il posto di Omero nel mio cuore».

In Italia, i canti ossianici furono tradotti dall’abate Melchiorre Cesarotti (1730-1808) nel 1763 e poi nel 1772; secondo alcuni, la versione in italiano supera persino l’originale. Tra i canti che ebbero maggiore successo in Europa, si citano le due epopee di Fingal e di Temora e i più brevi Carthon e Dar-thula. Quest’ultimo è particolarmente noto per l’invocazione alla luna che si trova all’inizio: «Dove ti ritrai alla fine della tua corsa, quando l’oscurità di più in più scende sul tuo viso?».

Apostrofe, questa, che ricorda molto da vicino i primi versi leopardiani di Canto notturno di un pastore errante dell’Asia:

 

«Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
contemplando i deserti; indi ti posi»

Lucia Cambria

Siciliana, laureata in Lingue e letterature straniere e in Lingue moderne, letterature e traduzione. Particolare predilezione per la poesia romantica inglese e per la comparatistica. Traduttrice di prosa e versi, nel 2020 ha trasposto in italiano per Arbor Sapientiae il romanzo "L’ultimo uomo" di Mary Shelley.