ArtePrimo PianoAgainst the White Cube: Light Ballet e Movie-Drome, un’invasione cinetica dello spazio

Arianna Cavigioli26 Maggio 2019
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Tra il 1957 e il 1966 il panorama artistico tedesco fu segnato dalla nascita e dallo sviluppo del gruppo ZERO, i cui membri – Otto Piene, Heiz Mack e in seguito Gunther Uecker – si opponevano alla pittura gestuale degli anni Cinquanta proponendo un terreno di sperimentazione. Il termine “ZERO” non era di matrice nichilista o dadaista, ma per il gruppo indicava «una zona incommensurabile dentro la quale un contesto stantio si trasforma in una situazione fresca e attuale». L’intenzione era quella di disegnare un nuovo spazio, più tecnologico, ludico e coinvolgente nei confronti dello spettatore.

László Moholy-Nagy, Light-Space Moulator, 1930, realizzato nei laboratori del Bauhaus

Ispirandosi a Light-Space Modulator (1930) di László Moholy-Nagy e Ballet Mecanique (1924) di Fernand Leger, Otto Piene realizzò diverse installazioni cinetiche che sprigionavano segni luminosi in movimento. Light Ballet era basato su un dinamo elettrico autoalimentato che permetteva alla luce di espandersi nello spazio attraverso costellazioni galattiche scintillanti. Il fruitore si muoveva tra i corpi meccanici accompagnato da una leggera melodia, che aveva il fine paradossale di accentuare il silenzio. Piene era un coreografo di radiazioni luminose e costringeva la luce a danzare nell’intera sala, creando un vero e proprio cielo meccanico.

Otto Piene, Light Ballet

Se le sculture di Alexander Calder erano cattedrali, garanti rispetto al desiderio di ascensione del costruttore, le sue installazioni assomigliavano a razzi, oggetti esplosivi che «non attirano solo l’occhio ma accecano l’interezza del corpo». Le pareti erano ridisegnate dall’energia elettrica che produceva le strutture cinetiche e la galleria, invasa da radiazioni luminose, si faceva contenitore di movimenti. Se in Light Ballet lo spettatore, pur essendo accecato dalle scintille cinetiche, era libero di muoversi nello spazio, Stan VanDerBeek costringe il pubblico ad assumere una determinata posizione per fruire Movie-Drome.

Formatosi presso la scuola di architettura Cooper Union College di New York, negli anni Cinquanta Stan VanDerBeek frequentò il Black Mountain College, dove entrò in contatto con John Cage, Josef Albers e in particolare Buckminster Fuller. Qui indagò la possibilità di un linguaggio basato su immagini cinematografiche, considerando la potenzialità del cinema come mezzo di comunicazione. Nel 1963 le sue teorie cinetiche confluirono nella realizzazione di Movie-Drome, un progetto che durò tre anni e lasciò un contributo considerevole alle pratiche multimediali future. L’intenzione di VanDerBeek era quella di trasformare il cinema in uno strumento didattico di intercomunicazione culturale, necessario per l’educazione dell’essere umano e dedito alla sperimentazione artistica.

Stan VanDerBeek, Movie-Drome, 1965, Stony Point, NY, fotografia scattata durante il “New York Film Festival”

Affascinato dalle sfere di Buckminster Fuller, VanDerBeek costruì un prefabbricato a forma di cupola, rendendolo uno schermo di proiezione infinita. Per superare il limite della visione univoca inserì una ventina di proiettori, che da più posizioni emanavano sequenze di immagini casuali, le quali – sovrapponendosi – davano origine a collages sempre differenti. Il cinema fu espanso a 360 gradi attraverso un’interfaccia in movimento e altalenante. Movie-Drome era una grande metafora della comunicazione interspaziale, un silo collegato direttamente ai satelliti in orbita che avrebbe trasmesso le immagini memorizzate dallo spazio. La struttura rivoltava il rapporto tra l’uomo e la tecnologia, rendendo lo spettatore un componente attivo anche grazie all’unicità dell’esperienza.

Arianna Cavigioli

Ricercatrice indipendente, collabora con diverse testate culturali, firmando recensioni e approfondimenti di eventi artistici. Ha frequentato il corso di Pittura e Arti Visive presso NABA (Nuova Accademia di Belle Arti), laureandosi con una tesi che analizza connotati e spazi espositivi alternativi al White Cube. In seguito, presso il medesimo Istituto, ha conseguito un titolo magistrale in Arti Visive e Studi Curatoriali.