La curatela si professa l’arte di organizzazione e allestimento delle mostre, in grado di valorizzare le singole opere attraverso un’adeguata ubicazione, un’atmosfera organica e un dialogo con il pubblico. Il ruolo del curatore acquisisce autonomia e professionalità durante gli anni Sessanta, grazie a figure indipendenti e sperimentali come Seth Siegelaub, Pontus Hultén, Walter Hopps, ma soprattutto Harald Szeemann.
Dopo aver ottenuto il dottorato di ricerca in storia dell’arte, archeologia e giornalismo presso l’università di Berna, a soli 27 anni Szeemann fu chiamato a dirigere la Kunsthalle della città per nove anni. Qui organizzò numerose esposizioni rivoluzionarie e trasformò il museo da contenitore di opere d’arte a laboratorio di idee e sensazioni. Secondo Szeeman la mostra era un mezzo di espressione caratterizzato da un linguaggio non verbale, veicolo di sensibilizzazione degli esseri umani attraverso una comunicazione non solo visiva ma anche spaziale ed emotiva. Nelle sue esposizioni confluivano soggetti, stili, correnti e periodi artistici differenti, in accordo con la sua concezione dell’arte libera da distinzioni cronologiche e raggruppamenti ideologici. L’allestimento non era mai predefinito ma nasceva sul posto, in collaborazione con gli artisti e attraverso l’interazione dei diversi punti di vista. Perciò in A Historische Klänge la pittura cinquecentesca di Hyeronimus Bosch fu installata accanto alla scultura di Bruce Nauman, dando origine a un’atmosfera atemporale e dimostrando il possibile dialogo tra produzioni artistiche totalmente differenti.
In occasione di Documenta 5, Harald Szeemann trasformò le vetrine dei grandi magazzini Loeb a Berna in una vera e propria strada invasa da volantini e inviti dell’evento. Non si trattava di una semplice presentazione dei lavori, ma di un’esperienza in cui gli spettatori fruivano la varietà della produzione artistica.

Durante 12 Enviroments (1968), invece, il pubblico doveva alzare una cerniera di un chilo per accedere al Cubic Package di Christo, poi si imbatteva in un enorme cuscino d’acqua realizzato da Klause Rinke, una barriera di BrilloBoxes e un ambiente cinetico di Jesús-Rafael Soto conducevano a un allestimento in neon di Martial Raysse.
Harald Szeemann progettava ambienti modellati sulle opere stesse, atti alla valorizzazione di tutti gli elementi, protetti da display a loro dedicati. Il matrimonio spirituale tra opera e spazio consentiva a ogni progetto di respirare ed essere vissuto dal fruitore senza ostacoli concettuali. La giusta distanza garantiva la massima autonomia espressiva del singolo lavoro, in armonia con le altre opere d’arte e senza esserne soffocato.
L’intervento al Museum Fridericianum e alla Neue Galerie durante la quinta edizione di Documenta rappresenta il punto più alto della pratica curatoriale di Szeemann. L’ubicazione delle opere e il dialogo tra ricerche artistiche completamente diverse aspirava alla creazione di una realtà autonoma, ideale. Trattandosi di un grande evento artistico fu necessario un nucleo tematico, che Szeemann strutturò in tre sezioni: realtà delle rappresentazioni, realtà del rappresentato e realtà delle non rappresentazioni. In questo puzzle intellettuale ogni opera aveva la sua ubicazione adeguata, grazie anche all’ausilio di oggetti di scena comuni.

Paul Thek invase un’intera stanza con piramidi in carta, animali bianchi e terra che veniva assestata giornalmente; la facciata del museo fu occupata da un’installazione architettonica del gruppo Haus Rucker Co’s mentre Ha Shult costruì una montagna di terra e altri elementi organici nel cortile. In Documenta 5 Harald Szeemann dimostrò la possibilità di esporre una produzione artistica multiforme all’interno dello stesso evento espositivo, prestando attenzione alla cornice territoriale e ideologica di ogni singola opera.

L’ubicazione adeguata del lavoro, il display come sistema di potenziamento dell’opera e la pluralità linguistica dell’esposizione garantiscono la valorizzazione. L’equilibrio è sempre stato per Szeemann un elemento indispensabile per mantenere le giuste distanze tra gli elementi espositivi, i fruitori e l’ambiente circostante. Questa sottomissione dell’ambiente circostante alle coordinate spaziali delle singole opere è un atteggiamento diametralmente opposto rispetto alla pratica curatoriale insita nel White Cube, intenta a fagocitare ogni elemento che vi si pone all’interno.

Arianna Cavigioli
Ricercatrice indipendente, collabora con diverse testate culturali, firmando recensioni e approfondimenti di eventi artistici. Ha frequentato il corso di Pittura e Arti Visive presso NABA (Nuova Accademia di Belle Arti), laureandosi con una tesi che analizza connotati e spazi espositivi alternativi al White Cube. In seguito, presso il medesimo Istituto, ha conseguito un titolo magistrale in Arti Visive e Studi Curatoriali.