La Wunderkammer cinquecentesca è una tipologia architettonica di collezionismo naturalistico che fuoriesce dalla dimensione privata dello studiolo e approda nella costruzione di un vero e proprio ambiente. Imperatori, principi, scienziati e mercanti accumulano oggetti rari e reperti curiosi: si tratta di elementi bizzarri di ogni genere e provenienza, come zanne di avorio, calamite magnetizzate da fulmini, tappeti orientali, porcellane cinesi, ai quali spesso sono attribuiti poteri magici e valori simbolici.

La Wunderkammer nasce e si sviluppa dall’idea di poter riunire una buona campionatura del mondo e vuole dare vita a un microcosmo astratto in cui tutto può essere catalogato, analizzato e studiato.

Il tramonto di questo modello collezionistico coincide con l’Illuminismo e la sua rivendicazione della ragione, ma a livello strutturale ha influenzato fortemente l’impianto dei Salon ottocenteschi, che prediligono l’invasione quasi totale dello spazio da parte delle opere.

Gallery of the Louvre di Samuel F.B. Morse (1833) sconvolge l’osservatore moderno: un mosaico di capolavori che invade il muro interamente e su ogni altezza. La parete non ha estetica propria ed è soffocata da una tappezzeria di cornici che negano il prolungamento del dipinto. Il quadro da cavalletto è una sorta di finestra trasportabile che attraversa il muro in profondità e inchioda lo sguardo dello spettatore, il quale perde il suo ancoraggio corporeo e viene proiettato nel dipinto. Possiamo immaginare i visitatori ottocenteschi girovagare per le sale scrutando i dipinti con sguardi inquisitori e perlustrando la mostra opera per opera. Agli artisti più fortunati e talentuosi è riservata la zona murale intermedia, le tele più grandi occupano la fascia più elevata e talvolta sono inclinate sulla parete in modo da rispettare il piano dell’osservatore, mentre i quadri più piccoli sono destinati ai bassifondi. La vetta del muro è la parte più ingrata ed è davvero faticoso concepire un’osservazione corretta di tele poste tre metri sopra al nostro occhio senza l’ausilio di trampoli.
Il passaggio dal Salon al White Cube non può essere sintetizzato in un’unica linea evolutiva e tiene conto di due aspetti che talvolta variano autonomamente: l’opera e lo spazio. Potremmo persino scrivere separatamente una storia approssimativa riguardo ai cambiamenti del quadro e un’altra legata alle mutazioni ideologiche del concetto spaziale.
Nel quadro da cavalletto la cornice promuove la prospettiva ed evidenzia la ripartizione interna al dipinto tra primo piano, piano intermedio e distanza. La pittura è confinata e al contempo messa in luce, nulla suggerisce che lo spazio all’interno del dipinto possa prolungarsi ai suoi lati. Lo storico dell’arte, artista e curatore Brian O’Doherty nei suoi scritti attribuisce l’inizio di un esercizio di pressione sul margine a Claude Monet, che rinunciò alla stesura di tratti salienti permettendo il rilassamento dell’occhio.

Emergono la negazione di una gerarchia all’interno del dipinto e il rifiuto di una rigidità nella decisione del contenuto pittorico. Gli impressionisti prediligevano l’importanza della visione alla staticità dell’immagine e ne derivava una scelta casuale del soggetto. Georges Seurat talvolta cospargeva la cornice di puntini colorati per attenuare la rigidità del margine e permettere alla visione di espandersi.

Un’ulteriore democratizzazione della superficie pittorica avviene grazie a Henri Matisse, i cui dipinti sono caratterizzati da un senso di dinamismo retinico: l’occhio non si posa stabilmente su un colore o un soggetto, ma vibra continuamente. Il suprematismo ha eliminato totalmente il rapporto con il soggetto e la cornice attraverso la rappresentazione del grado zero della pittura. Lucio Fontana ha negato addirittura la pittura stessa e tramite un taglio ha dipinto con lo spazio.

Le tele a strisce tagliate a forma di T, U e L che Frank Stella espose presso la galleria Leo Castelli nel 1960 sviluppavano ogni piccola porzione di parete, dal pavimento al soffitto, da angolo ad angolo.

La rottura della forma classica permise l’autonomia della parete, posta sullo stesso piano della tela. Fu William Anastasi a porre sullo stesso piano il muro, la pittura e la tela in Six Sities, una serigrafia raffigurante la galleria stessa in cui venne esposto il dipinto.

La trasformazione dello spazio e del modello espositivo dal Salon al White Cube è ambigua e articolata, pertanto è impensabile tracciare un percorso evolutivo e cronologico certo. Sappiamo che nel 1863 nasce il Salon Des Rifusés, per volere di Napoleone III e su pressione degli artisti continuamente scartati dalla selezione per il Salon ufficiale. Non è certo il grado di innovatività presente nell’atteggiamento espositivo rispetto ai Salon standard, ma fu la prima volta che gli artisti si occuparono dell’allestimento. Il curatore e storico d’arte Hans Ulrich Obrist parla della volontà di Edouard Manet di presentare i quadri su due file al massimo e con una certa distanza gli uni dagli altri, permettendo al pubblico di concentrarsi sul singolo dipinto.
Nel 1960, in occasione della grande retrospettiva di Claude Monet tenutasi al Museum of Modern Art, William C. Seitz eliminò le cornici e collocò alcuni dipinti a filo della parete, diminuendo il confine con essa fino a creare dei piccoli murali. Negli anni Quaranta il curatore, scrittore e grafico Willem Sandberg fu direttore dello Stedelijk Museum e fece costruire una nuova ala caratterizzata da spazi aperti, luci naturali e ambienti spogli da ogni decorazione.
Probabilmente fu la curatrice Anne d’Harnoncourt a mettere a punto quello che poco dopo prese il nome di White Cube, introducendo un modello espositivo in cui le opere erano affisse in spazi rettangolari neutri, con la giusta distanza tra loro e ad altezza occhio. L’obiettivo di questo spazio era la democratizzazione delle opere d’arte, ovvero la messa sullo stesso piano di tutti i singoli lavori, ma al contempo la possibilità di concepire ciascuna opera distintamente e non come parte di un insieme. La scelta di uno spazio bianco e regolare è un punto di partenza per sviluppare una linea curatoriale diversificata; come dichiara in un’intervista con Hans Obrist «sono una persona che lavora con spazi bianchi, ma non ho problemi se sto appendendo dei quadri, a metterli all’improvviso molto in alto o in posti diversi se mi sembra che siano giusti per loro». Anche il celebre architetto Cedric Price crede nella potenzialità flessibile del White Cube, uno spazio il cui utilizzo serve alla necessità del momento, poiché il tempo è la quarta dimensione, dopo l’altezza, la larghezza e la profondità.
Da un lato il nuovo modello di spazio espositivo degli anni Sessanta è stato adottato come un contenitore neutro in grado di accogliere le nuove esigenze spaziali delle ricerche artistiche sperimentali, dall’altro gli artisti devono adeguarsi alle sue specifiche connotazioni. L’idea di cubo bianco come laboratorio aperto e potenzialmente dinamico derivava dalla necessità da parte degli artisti d’avanguardia di sperimentare nuovi progetti come installazioni ambientali, happening ed eventi performativi, che le gallerie classiche non erano in grado di ospitare. Tra gli artisti che ricorrono a un terreno neutro su cui sviluppare i propri linguaggi ricordiamo Allan Kaprow, Claes Oldenburg, Oscar Bony, Edward Kienholz e Trisha Brown.
Dagli anni settanta in poi l’utilizzo del White Cube ha subito un processo di standardizzazione, provocando conseguenze devastanti all’interno del panorama artistico globale. Il modello cubico che si è imposto progressivamente è caratterizzato dalla creazione di ambienti il più possibile purificati da tutti gli elementi decorativi, di arredo o di altra natura, che possano disturbare o inquinare la contemplazione delle opere, presentate in modo autoreferenziale e anche in relazione ad altre opere all’interno delle sale.

Arianna Cavigioli
Ricercatrice indipendente, collabora con diverse testate culturali, firmando recensioni e approfondimenti di eventi artistici. Ha frequentato il corso di Pittura e Arti Visive presso NABA (Nuova Accademia di Belle Arti), laureandosi con una tesi che analizza connotati e spazi espositivi alternativi al White Cube. In seguito, presso il medesimo Istituto, ha conseguito un titolo magistrale in Arti Visive e Studi Curatoriali.