LetteraturaPrimo PianoEdito INedito: “Gladiatrici”, un mestiere dannato ma affascinante

https://lacittaimmaginaria.com/wp-content/uploads/2019/05/yhryhyj-1280x589.jpg

Nel Colosseo, nei circhi e negli anfiteatri di epoca romana combattevano anche le donne, sebbene esigue siano le fonti documentarie e ancora di più le testimonianze materiali su reperti archeologici. Anche la lingua latina non ci aiuta, perché non prevedeva un termine specifico per designare la donna gladiatrice; “gladiatrix” infatti è un neologismo inventato dai noi moderni, sulla falsariga di “gladiator”, nome di genere maschile utilizzato unicamente per gli uomini che combattevano nei giochi gladiatori. Eppure possiamo farci un’idea di come veniva espresso il concetto di “gladiatrice” nel mondo romano attraverso le attestazioni a noi pervenute nelle fonti classiche. Da qui apprendiamo che le locuzioni utilizzate dai Romani per descrivere gli spettacoli gladiatorii con donne andavano dal pragmatico “mulieres ad ferrum” (CIL, XIV, 416) all’esplicito “pugna et femina” (Svet., Dom., 4) fino alle espressioni più poetiche e metaforiche “in armis Venus” oppure “femineo Marte” (Mart., De spect., 6 e 7) e “sexus rudis insciusque ferri” (Stat., Silv., I, 6).

Il libro Gladiatrici. Appunti di ricerca (128 pp., 15 euro) di Lucio Castagneri, edito da Arbor Sapientiae, avvia in punta di piedi una ricerca sul tema, attraverso una fondamentale raccolta di dati sulle evidenze iconografiche e storiche inerenti al mondo della gladiatura femminile che si snoda su un terreno difficile, con pochissime testimonianze, tanto che fino a ora nessuno aveva mai dedicato uno studio sistematico all’argomento.

La copertina del libro, edito da Arbor Sapientiae

Un mestiere dannato ma affascinante, sia in ambito maschile che femminile, a volte un atto di ribellione anche di fanciulle provenienti da buona famiglia, tanto che il costume romano, imperniato sul decoro, a un certo punto non poté più tollerare tali esibizioni da parte dei parenti dei ceti superiori. La condizione “infame”, che accomunava i gladiatori a chi esercitava attività teatrali e prostituzione, venne esplicitamente sancita dal diritto romano, e quindi vietata ai cittadini aristocratici, nel Senatus Consultum del 19 d.C., in parte rinvenuto su lamina bronzea a Larino (Molise), che a sua volta citava un precedente decreto del’11 d.C. Il testo distingue tra gladiatrici di origine senatoria ed equestre da quelle invece di origine plebea. Alle prime è fatto assoluto divieto di esercitare attività di gladiatura e di teatro fino al terzo grado di parentela discendente in linea sia paterna che materna.

L’esibizione di giovani donne romane in spettacoli agonistici era comunque accettata e regolata attraverso un’altra importante istituzione romana: la “iuventus”. Si trattava di un’organizzazione sportivo-militare sorta in epoca repubblicana a cui potevano iscriversi fanciulli e fanciulle dai 9 ai 17 anni che venivano allenati per esibirsi in attività ginniche e di lotta propedeutiche al servizio militare. Sotto Augusto la “iuventus” fu strutturata ulteriormente in “collegia iuvenum”, luoghi dotati di palestre, ginnasi e attrezzature sportive con l’intento di rinvigorire i giovani delle classi dirigenti. I “Collegia” erano gestiti da una serie di “magistri”, “praefecti” e “patroni” che si occupavano dell’educazione dei ragazzi e dell’organizzazione delle attività, mentre un “curator” finanziava e pianificava gli spettacoli. A capo della catena vi era il “princeps iuventutis”, carica onorifica rivestita all’inizio dai nipoti di Augusto: Gaio nel 6 a.C. e Lucio nel 3. a.C. “Iuvenalia” erano le feste che celebravano l’attività dei “collegia iuventutis” con giochi e gare sportive culminanti nel “lusus Troiae” o nel “lusus iuvenalis”.  Nel II sec. d.C l’istituzione era molto attiva anche nelle province romane, ma con il graduale rilassarsi della disciplina imperiale cominciò a svigorire fino a sparire dopo il III sec. d.C. Dal punto di vista sociale il “lusus iuvenalis” rappresentò uno sfogo fortemente regolamentato dalle istituzioni che però non fu in grado di sostituirsi al fascino del combattimento gladiatorio, lo spettacolo in assoluto più amato e celebrato dalla romanità.

Amazon e Achillia

Attraverso fonti epigrafiche e filologiche, che contestualizzano in modo puntuale il fenomeno, il testo passa all’analisi e alla ricostruzione dei reperti che raffigurano gladiatrici come Amazon e Achillia, passate alla storia per aver ricevuto la libertà. I riferimenti documentari a donne “gladiatrici” nelle fonti di epoca romana coprono un arco cronologico che va dal I sec. d.C. all’inizio del III sec. d.C., circa duecento anni, ma dalla lettura attenta dei testi si presuppone che già in epoca repubblicana, perlomeno a Roma, fossero in uso i combattimenti fra donne, anche se non sappiamo con quale frequenza o eccezionalità. Certo è che con l’inizio del principato augusteo si cominciò a percepire questo tipo di spettacolo a tal punto volgare da non poterne più permettere la pratica, anche solo come simulazione, a uomini e donne appartenenti alle classi più elevate, fino ad arrivare – con Settimio Severo – al divieto assoluto della gladiatura femminile per ragioni di decoro.

Nel Satyricon di Petronio troviamo il primo riferimento letterario (seconda attestazione storica dopo il Senatus Consultum di Larinum del 19 d.C.) in cui la gladiatrice combatte su un carro a due ruote: «Ha già per le mani qualcuno e una donna che combatte sul carro [essedarius combatteva su un carro da guerra a due ruote]». Di grande rilevo è l’attestazione del De Spectaculis di Marziale: «Non basta, Cesare, che ti serva in armi il bellicoso Marte, al tuo servizio militare adesso la stessa Venere»; oppure: «La fama celebrava anche la gloriosa impresa di Ercole, cioè l’uccisione del leone nella larga valle di Nemea. Taccia l’antica leggenda: infatti dopo gli spettacoli che tu, o Cesare, ci hai donato, riconosciamo ormai che tali imprese sono compiute da donne guerriere».

Stazio sottolinea nelle Silvae l’accanimento delle gladiatrici, inesperte di spada, eppure sempre pronte all’attacco anche contro uomini: «In mezzo a tale fremito e inusitato sfarzo, fugge lieve il piacere dello spettacolo. Stanno in posizione d’attacco le rappresentanti del sesso debole e inesperto della spada: con quanto accanimento si battono in scontri maschili».

Anche nella Vita Domitiani di Svetonio esistono dei combattimenti misti: «E organizzò cacce, lotte di gladiatori, che avevano luogo perfino di notte, al lume di torce, e infine battaglie sia di uomini, sia di donne».

Tacito, negli Annales, testimonia la presenza di figure femminili nell’arena e perfino di senatori: «Nello stesso anno Cesare conferì il diritto latino alle popolazioni delle Alpi Marittime. Fissò i posti riservati nel circo ai cavalieri romani, cioè davanti a quelli della plebe: infatti, fino ad allora entravano nel circo senza distinzione alcuna, perché la legge Roscia aveva stabilito, per i cavalieri, solo le prime quattordici file in teatro. Si tennero in quell’anno spettacoli di gladiatori con uno sfarzo pari ai giochi del passato. Ma molte donne nobili e molti senatori si degradarono scendendo nell’arena».

Giovenale denuncia nelle Satire l’indecenza di mogli che vanno a indossare le armi e scendono nell’arena: «E chi non conosce le tuniche di Tiro e gli unguenti per i loro esercizi ginnici? Chi non le ha viste vibrare fendenti al palo? Lo intaccano a furia di colpi, lo percuotono con lo scudo, eseguendo con precisione tutti i movimenti prescritti, ben degne di esibirsi tra le fanfare nei giochi di Flora, se pur nel loro petto non covino disegni piú ambiziosi e non s’allenino davvero per l’arena. Che pudore può mostrare una donna con l’elmo in testa, che abdica al suo sesso? L’attira la forza, eppure diventar uomo non vorrebbe, sapendo quanto breve è il piacere nel maschio. Bell’onore se mettessero all’asta gli arnesi di tua moglie: cinturone, bracciali, elmo e mezzo cosciale della gamba sinistra! E che gioia se la tua sposa, passata ad altro tipo di tenzone, vendesse gli schinieri! Donne! Sudano persino sotto la veste piú leggera: che le loro grazie vadano in fiamme a contatto d’una stoffa di seta? Guarda con che fremiti vibra i colpi appresi dal maestro, schiacciata com’è sotto il peso dell’elmo, come sta salda sui garretti malgrado la corazza di dura corteccia; e ridi, sí, quando deposte le armi si accoscia sul pitale! Ditemi voi, nipoti del cieco Metello, di Lèpido, di Fabio Gúrgite, quale moglie di gladiatore si è mai conciata in questo modo? Quando mai la moglie di Asilo s’è vista ansimare davanti al palo?».

Unepigrafe di Ostia Antica del II sec. d.C. (CIL XIV, 4616 e 5381) riporta che il questore di Ostia (Hostilianusquaestor aerarii), insieme con la moglie Sabina, portò per primo “ab urbe condita” spettacoli anche di gladiatrici. Infine Settimio Severo, con l’editto imperiale del 200 d.C. (Cass. Dio, LXXV, 16, 1), rinnova per sempre il divieto della gladiatura femminile.

Maria Elisa Garcia Barraco

Svolge l'attività di redattrice contribuendo in ambito filologico ed archeologico alla pubblicazione di numerose opere. Attualmente la sua ricerca è rivolta allo studio e al recupero di testi particolarmente rilevanti nell’ambito delle antichità romane e della topografia antica. Si aggiorna regolarmente attraverso corsi specialistici presso il PIAC - Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana, è responsabile del progetto editoriale Antiche Piante di Roma (APR), è coordinatrice scientifica del progetto IRAW (Italian Research on Ancient World) e fa parte del comitato redazionale della serie internazionale SANEM (Studies on the Ancient Near East and the Mediterranean).