Nel 1978, il fortunato ritrovamento di un papiro contenente alcuni versi di epigrammi, verificatosi presso Qasr Ibrîm (l’antica Primis), permise di ottenere informazioni utili sulla produzione del poeta elegiaco Gaio Cornelio Gallo, vissuto in età augustea e caduto presto in disgrazia. Originario di Forum Iulii, nella Gallia Narbonese, egli nacque nella seconda metà del I sec. a.C. e si trasferì poi a Roma, dove divenne generale fidato di Ottaviano. Combatté nella battaglia di Azio (31 a.C.) e ottenne la carica di “praefectus Aegypti”, rivestendo un ruolo politico di fondamentale importanza. Per motivi del tutto sconosciuti e soltanto ipotizzabili, il poeta venne esiliato e, conseguenzialmente, condannato alla “damnatio memoriae”. L’onta fu tale da indurre Gallo al suicidio, avvenuto nel 26 a.C.
Durante gli ultimi anni della sua formazione in Grecia, tappa pressoché obbligata per i rampolli delle famiglie aristocratiche, Gaio Cornelio Gallo – considerato ponte di collegamento tra la poesia neoterica e l’elegia di età augustea – conobbe Partenio di Nicea, il quale gli dedicò gli Erotikà Pathémata (I patimenti d’amore), incentrati sulle storie mitiche di amori infelici. I racconti erano già stati ripresi dai poeti Euforione e Nicandro, modelli ineludibili per i “poetae novi” e per Catullo. Anche Gallo, ispirato dalla musa elegiaca, diede vita a componimenti imperniati sulla tematica erotica, raccolti nell’opera intitolata Amores (denominazione significativamente utilizzata da Ovidio per parte della sua produzione). Cornelio Gallo, non a caso, viene considerato il padre degli elegiaci, essendo stato punto di riferimento per Tibullo, Properzio e, appunto, Ovidio, che lo definì “inventor generis” dell’elegia latina. A Gallo viene dedicata la decima bucolica di Virgilio, che presenta il poeta come protagonista del carme, consolato dai pastori per le sue sofferenze amorose e compianto finanche dagli elementi paesaggistici descritti nei versi. Il celeberrimo «omnia vincit Amor, et nos cedamus Amori», da lui pronunciato, è divenuto il manifesto della poesia elegiaca, dichiarazione poetica emblematica e intramontabile.
Nel componimento virgiliano, Gaio Cornelio Gallo si duole per la partenza di Licoride, pseudonimo della liberta Volumnia (dal nome della “gens” a cui apparteneva Publio Volumnio Eutrapelo, suo padrone e probabilmente impresario teatrale), divenuta attrice di mimi con il nome di Citeride (da Citera, l’isola di Venere). La donna, ricordata per la sua bellezza, fu l’amante di molti personaggi influenti, quali Marco Antonio e Marco Giunio Bruto. Il lamento amoroso di Cornelio Gallo, trasposto nei versi virgiliani, si presenterebbe come un propèmptico, ossia un augurio rivolto all’amata alla vigilia della sua partenza verso le province del nord al seguito di un ufficiale dell’esercito romano, riconosciuto nel condottiero Quinto Fufio Caleno. Licoride, alla stregua di tutte le donne cantate dagli elegiaci, è una persona crudele, un’amante ingrata a cui il poeta indirizza i suoi sentimenti senza essere ricambiato. Nel papiro di Qasr Ibrîm, Licoride è definita “domina”, la padrona a cui il poeta deve sottostare per il “servitium amoris” e che determina inevitabilmente uno stato di rinuncia alla vita politica e di dedizione totale alla donna amata. È quindi questo stesso genere di poesia a farsi portatore di una forma di dissidenza, rifiutandosi di affrontare la tematica bellica e civile.
Non è possibile stabilire, come nel caso della “relegatio” di Ovidio a Tomi (8 d.C.), quanto la produzione letteraria di Gaio Cornelio Gallo abbia contribuito alla sua rovina. Si è ipotizzato che il poeta avesse manifestato il suo dissenso in merito alla politica di Augusto contro i Parti, attraverso l’organizzazione di una rivolta in Egitto. Altre fonti, tra le quali emerge Svetonio, riferiscono dell’eccessiva indipendenza con la quale il poeta svolse la sua funzione di prefetto, coniando addirittura una moneta, atteggiandosi da monarca orientale e tributandosi gli onori propri dell’imperatore. Secondo quanto riportato da Servio, Virgilio – per volere di Augusto – fu persino costretto a cassare i riferimenti a Gaio Cornelio Gallo nell’ultimo libro delle Georgiche, inserendo la storia di Aristeo in sostituzione alle lodi riservate all’amico.
In attesa di ulteriori ritrovamenti, che permettano di rispondere con più precisione alle tante domande che affiorano dallo studio delle vicende biografiche del poeta, è bene sottolineare l’importanza dell’esemplare papiraceo sopracitato. Oltre a rappresentare la testimonianza della produzione di Gaio Cornelio Gallo, racchiudendone i nuclei tematici principali, esso potrebbe essere un papiro autografo o comunque idiografo. Le poche linee a disposizione sono inaugurate da una “captatio benevolentiae” rivolta a Ottaviano e, attraverso alcuni rilievi paleografici, è stato possibile rintracciare incertezze ed errori, prove del carattere privato del papiro. Nonostante la “capitale elegante” adoperata per la redazione del testimone sia troppo ben formata per l’epoca di Caio Cornelio Gallo e per l’uso comune, Guglielmo Cavallo dimostrò che questa scrittura fosse molto utilizzata dagli esponenti dell’aristocrazia di cui il poeta faceva parte, accogliendo l’ipotesi che il papiro potesse essere stato vergato dal lui stesso in persona.
Al di là delle questioni legate al vettore e alla sua natura, il supporto custodisce i preziosi frammenti dell’opera di Caio Cornelio Gallo, sigillata dalla pericope «infine le Muse hanno creato i versi/ che io possa recitare degni della mia signora» («tandem fecerunt carmina Musae/ quae possim domina deicere digna mea»). Pochi residui, lacunosi in gran parte, ma sufficienti a ridare voce a un poeta dimenticato.

Anita Malagrinò Mustica
Nata a Venezia, ma costantemente in viaggio per passione e lavoro, studia Lettere Classiche a Bari. Sognando di poter dedicare la sua vita alla ricerca e all’insegnamento, ha collaborato e collabora con varie realtà editoriali, scrivendo per diverse riviste di divulgazione scientifica e culturale. Appassionata di teatro e di poesia, porta avanti numerosi progetti performativi che uniscono i due ambiti.