ArtePrimo PianoFalsi e falsari: il caso della “tiara di Saitaferne”

Anna D’Agostino4 Giugno 2022
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La produzione di falsi di opere artistiche costituisce un aspetto molto rilevante della storia dell’arte, come altrettanto rilevanti sono i casi in cui determinati musei acquistarono alcuni manufatti senza verificarne adeguatamente la provenienza. Prima di narrare uno degli esempi più eclatanti di questo genere di eventi, che vede protagonista uno dei musei più famosi al mondo, bisogna comprendere come si considera un falso. Cesare Brandi, già nel 1958, sostenne che «falso non è falso finché non viene riconosciuto per tale, non potendosi infatti considerare la falsità come una proprietà inerente all’oggetto»; aggiunse, inoltre, che alla base della falsificazione vi è l’intenzionalità di tranne in inganno qualcuno. Dunque, a qualificare un oggetto come falso non basta solamente l’intento di produzione falsaria, ma è necessaria un’opinione critica che certifichi tale falsificazione.

Il caso che viene qui presentato è singolare in quanto non vede come diretto “ingannatore” colui che produsse l’opera, ma i suoi committenti. Si tratta del caso della “tiara di Saitaferne”.

La “tiara di Saitaferne”

Verso la fine del XIX secolo, le opere d’arte greche e scite provenienti dalla Russia furono molto ambite grazie ai ritrovamenti dei siti di Kul Oba (1830) e Chertomlyk (1863). Con i musei e i collezionisti europei desiderosi di acquistare qualsiasi cosa provenisse da questa regione, si erano create le condizioni perfette per la realizzazione di una truffa. A farne le spese fu il Musée du Louvre che, il 1 aprile 1896, annunciò trionfante di aver acquistato una tiara d’oro un tempo appartenuta a Saitaferne (un re scita) per l’immensa somma di 200mila franchi. La tiara – dal peso di 443 grammi, alta 17,5 centimetri e con un diametro di 18 centimetri – è decorata con scene dell’Iliade di Omero e con raffigurazioni della vita quotidiana degli Sciti, un popolo nomade iraniano di guerrieri di cavalleria che visse dal VII secolo a.C. nell’area dell’attuale Russia meridionale e dell’Ucraina.

Tutte le informazioni sull’origine dell’oggetto furono fornite dalla tiara stessa, in quanto possiede un’iscrizione greca prominente con la dicitura: «Il consiglio e i cittadini di Olbia onorano il grande e invincibile re Saitaferne». Olbia fu un’antica colonia greca – situata alla foce del fiume Dnepr, sulla costa settentrionale del Mar Nero – dove vissero insieme greci, sciti e sarmati. Dunque si pensò che questa tiara fosse un dono di Olbia al sovrano scita Saitaferne.

Grazie a tutti questi riferimenti storici, il manufatto fu datato alla fine del III o all’inizio del II secolo a.C. e fu esposto al Louvre dal 1896 al 1903. Tuttavia, sin dall’inizio si fecero avanti voci critiche che misero in dubbio l’autenticità dell’oggetto; tra queste, vi fu quella dell’archeologo tedesco Adolf Furtwängler che immediatamente notò molti problemi stilistici e mise in dubbio l’evidente mancanza di invecchiamento del manufatto. L’opera dunque si trovava in un ottimo stato di conservazione e questo subito rese scettici gli archeologi. In seguito a un esame più attento, furono trovate tracce di strumenti moderni sulla tiara. Fu anche un altro elemento a stupire gli esperti: l’iscrizione. Essa mostrava sorprendenti somiglianze con un’iscrizione trovata a Olbia alcuni decenni prima e pubblicata nel 1822. Inoltre, non sembrò credibile che su una corona creata per un re scita (gli sciti agli occhi dei greci erano dei barbari) vi fossero delle scene dell‘Iliade, in particolare perché i canti di Omero trovarono più interesse tra gli artisti moderni che tra i greci, che preferirono raffigurare storie di divinità locali e di eroi.

Cartolina satirica

Di conseguenza, scoppiò una disputa sull’autenticità della tiara, che il famoso museo parigino difese con veemenza. La questione tenne in sospeso l’intero pubblico francese fino a quando, il 25 marzo 1903, un orafo ebreo di Odessa di nome Israel Dov-Ber-Rouchomovsky si fece avanti – dopo aver saputo dell’acquisto della tiara da parte del Louvre – per comunicare che era egli l’artefice del manufatto. Rouchomovsky fu quindi invitato a Parigi per dimostrare quanto affermato: egli, davanti a una commissione parlamentare appositamente creata, dovette realizzare alcune copie parziali dell’oggetto; fu sorprendente che non usò né la tiara stessa né i suoi disegni come aiuto. Rouchomovsky in quell’occasione dichiarò che nel 1894 fu incaricato da due mercanti d’arte rumeni, Schapschelle Hochmann e suo fratello Leiba, di creare la tiara come regalo per un familiare o un amico interessato all’archeologia, per la quale fu pagato solo 4mila franchi. I due addirittura fornirono a Rouchomovsky i dettagli dei recenti scavi e alcuni libri che illustravano manufatti greco-sciti su cui basare il lavoro.

Un articolo sulla tiara pubblicato dalla rivista «Life» il 26 settembre 1955

Rouchomovsky guadagnò molta attenzione pubblica con la tiara, ma si difese dalle accuse di essere un falsario sostenendo di non aver prodotto la tiara come un falso in quanto non ebbe l’intenzione di ingannare. Lui stesso descrisse la tiara come un manufatto con le caratteristiche di un oggetto antico. Il Louvre, imbarazzato, nascose l’oggetto nel deposito. Quello della “tiara di Saitaferne” fu uno dei più grandi scandali archeologici del secolo.

Anna D’Agostino

Classe '93, laureata in Storia dell'Arte con una tesi in Museologia sull'arredamento dell'Ambasciata d'Italia a Varsavia dalla quale è scaturita una pubblicazione in italiano e polacco. Prosegue la ricerca inerente l'arredamento delle Ambasciate d'Italia nel mondo grazie a una collaborazione con la DGABAP del Mibact. É iscritta al Master biennale di II livello "Esperti nelle Attività di Valutazione e di Tutela del Patrimonio Culturale".