LetteraturaMusicaPrimo PianoEugenio Montale e la scoperta della poesia attraverso la musica

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Cosa divide la musica dalla poesia? La poesia è davvero musica del linguaggio oppure un semplice stile narrativo? Potremmo definire “etica della musica” il quesito che interroga sull’esistenza effettiva, oppure no, di un suo contributo più nobile. Eugenio Montale, premio Nobel per la letteratura nel 1975, dice di scoprire la poesia grazie alla musica. Tramite il melodramma, definisce la musica una grande scoperta, poi un grande amore. Montale racconta la sua grande passione, il melodramma, durata tutta la vita (senza però mai approdare al palcoscenico) in un’intervista del 1966. Ironizza, sottolineando le scarse capacità intellettive dei cantanti dell’epoca. Di sicuro, sostiene, per la sua intelligenza, diventare un cantante professionista sarebbe stato un vero e proprio spreco: «Non avrei resistito alla vita dell’artista lirico che è piena di problemi, di sacrifici e che impone questa di due qualità così diverse, inconciliabili, il genio e l’imbecillità diciamo così. Io non so se avessi il genio, ma certamente no; ma certamente poi non ero completamente provvisto neanche di imbecillità, quindi non si sa che cosa sarebbe venuto fuori da questo connubio».

Di altrettanto sicuro, c’è che Montale dovette gran parte del proprio lavoro poetico all’arte della musica. Era di fatto portatore di ambedue le vocazioni: sia quella musicale, sia quella poetica. Una delle due fruttò. Ma la seconda non lo abbandonò mai ugualmente. Ricoprì l’incarico di critico musicale del Corriere d’Informazione fra il 1954 e il 1967, trattando vari argomenti e parlando di vari compositori. Poi arrivò la definiva conversione, il passaggio inevitabile alla poesia. Scrisse Accordi, silloge di un insieme di sette liriche pubblicate nel 1922, dedicate ognuna a uno strumento musicale diverso. L’intenzione era quella di imitare attraverso metriche, strumenti fonetici e strutture poetiche, quel che è il suono proprio a ciascuno degli strumenti da cui le liriche prendono il titolo. Fu poi criticato in seguito. Lui stesso, negli anni che seguirono, non amò molto la sua opera: definì l’idea «un’ingenua pretesa». Era giovane, il coraggio che ebbe la contraddistinse, nel bene e nel male. Escluse poi ben sei delle sette poesie dai suoi Ossi di seppia e ne parlò sempre con reticenza. Il compito era arduo ma nobile (come lo è tutto il patrimonio che Montale ci ha lasciato): rendere, attraverso il linguaggio semantico della parola e quindi della scrittura, il linguaggio asemantico della musica. Rendere quindi, in un certo senso, attraverso l’oggettività del linguaggio, il soggettivo proprio alla musica e alle sue infinite interpretazioni.

Montale costruiva ponti, non concepiva un’arte senza l’altra. Era un artista coraggioso e difficilmente stanco. Proprio come la poesia, proprio come la musica: che sempre sperimentano e mai si fermano al già sperimentato. Accettava di essere influenzato da molte cose: anche dalla pittura, in particolare quella simbolista. Non aveva solo una sensibilità letteraria o musicale, ma una sensibilità artistica. Troppo poco è stato valutato il suo esperimento, inteso a voler sciogliere i nodi tra le due arti. Troppo poco, oggi, nelle scuole si studia la storia della musica. Lo diceva già Montale, ai suoi tempi (e poco è cambiato): «Nelle scuole elementari non si insegnano i rudimenti della musica e del canto corale come molti vorrebbero. La storia della musica non è insegnata nelle scuole medie e poche cattedre di questa disciplina esistono nelle nostre Università. Restano le vocazioni individuali: il bambino che strimpella uno strumento senza conoscere le note, fatto tutt’altro che raro, perché la musicalità degli italiani si riconduce a una facile “orecchiabilità”».

Musica e poesia viaggiano ancora su due binari paralleli. Di certo, cultura letteraria e cultura musicale – fatta eccezione per i cantautori – non annoverano un punto di contatto ovvio. È però difficile separare due sorelle così unite da una rispettiva gelosia positiva. Cosa potrebbe mai esserci di sensato nel dividere la parola dalla musica? Renderle due rivali sospettose, isolate e isolanti: questo forse è il delitto di chi compie l’utilizzo dell’una, senza rendere onore all’altra. Questo è il delitto di chi non sostiene la reciprocità genuina, indispensabile, del suono e del linguaggio che – come due fratelli – hanno lo stesso sangue e spesso, dunque, anche simili difetti.

Ottavia Pojaghi Bettoni

Nata a Stoccarda, ha vissuto per molti anni in Germania, in Svizzera e in Francia. Attualmente si divide tra Roma e Verona. Scrive poesie e racconti.