I tempi interessanti della Biennale Veneziana si riscontrano nei Padiglioni Nazionali in una riflessione intima, straniante, futuristica, incalzante sulle dinamiche sociali e culturali dell’età contemporanea. Diversi i Padiglioni che hanno deciso di affidare ad un unico artista l’analisi di quest’epoca contemporanea certamente turbolenta e che ha fatto del termine “Interesting Times” il vessillo del proprio scorrere.
Renate Bertlmann con Discordo Ergo Sum, curata da Felicitas Thun-Hohenstein, orchestra gli ambienti del Padiglione Austriaco, per la prima volta affidato ad una sola artista, in una installazione site specific, divisa in due parti, che dialoga tra interno ed esterno dell’edificio.

Sulla facciata del Padiglione la scritta, di accento cartesiano, Amo Ergo Sum, in bianco sul bianco dell’architettura, si contrappone al titolo dell’intero Padiglione, al contempo includendolo nella consonanza di uno schema ritmico che bilancia amore e discordia, accordo e contrasto determinati dalla manifestazione del proprio pensiero.
Contrasti e contraddizioni accolgono i fruitori nel percorso espositivo che omaggia l’attenta e fondamentale ricerca dell’artista, firmata sulla facciata dall’egida di un postulato in cui convivono luci e ombre, purezza e linearità, così come variabilità e mutevolezza.
Proprio lì dove la luce scende piano nell’ombra si evidenzia con maggior incisività l’assioma di Bertlmann che risponde e si contrappone, nel cortile interno, all’esercito di rose-coltello, trafitte dallo stesso stelo che ne permette la vita, la stabilità, l’elevazione. Vetri vermigli e lame argentee si compenetrano in ordini rigorosi, la fragilità e delicatezza del vetro si schiera imperturbabile e graffiante offrendo al centro della corolla un pugnale letale e acuminato.

All’interno dello spazio espositivo fotografie, schizzi, disegni proiettano in uno sguardo parietale il lavoro di Renate Bertlmann: pittura, disegno, collage, fotografia, scultura e performance, a partire dagli anni settanta.

Cathy Wilkes, con la curatela di Zoé Whitley, nel Padiglione Britannico invita l’osservatore ad un rapporto privato e intimista con il mondo degli oggetti su cui l’artista agisce. Gli elementi portatori di storie di origini antiche, sono compendi di più ampie essenze che abitano le sale del Padiglione e al contempo galassie parallele dove ancora si sentono le eco delle anime che ne hanno caratterizzato le vicende, intercettandone l’esistenza.



Inquietudini e flebili sofferenze accompagnano le creature antropomorfe che vivono gli ambienti, le sculture trattengono i propri incubi in un ventre di cemento, mentre il corpo sottile e diafano sostiene il peso di un tormento muto. Il sussurro di una elegante poesia malinconica sembra accompagnare il fruitore all’interno delle sale, instaurando un legame segreto tra spettri e oggetti nella precarietà del loro esistere.


Larissa Sansour, artista danese di origine palestinese, per il Padiglione della Danimarca presenta Heirloom, mostra curata da Nat Muller. L’artista indaga la condizione umana nei suoi concetti di identità, memoria, senso di appartenenza, esilio, in un futuro fantascientifico. L’operazione della Sansour caratterizza architettonicamente il Padiglione stesso, si evidenzia e costruisce nella proiezione del film in due canali In Vitro e nell’installazione scultorea, legata indissolubilmente al film di cui ricrea in scala maggiore il deposito dei ricordi: Monument for Lost Time.
Nel film In Vitro, girato a Betlemme, la categoria temporale è completamente ribaltata in una realtà sotterranea, sospesa, di esseri clonati (in vitro appunto), privati del passato, del presente e del futuro, estromessi per sempre dalla luce del sole. Il film presenta il dialogo tra due donne, Dunia, un’anziana signora, ora in punto di morte, che ha dato vita al mondo sotterraneo e Alia, un clone in cui sopravvivono ricordi atavici e memorie congenite di luoghi e accadimenti che non le appartengono, a cui non può attribuire familiarità, ma dalle quali tuttavia non riesce a liberarsi. Dunia al contrario mantiene il legame con la vita attraverso le memorie di un passato sulla terra, di una vita lontana, familiare. I concetti di casa, rifugio, memoria, temporaneità, passato e futuro sono letti dell’osservatore attraverso lo sguardo delle due protagoniste, nelle distanze che le separano e nella condivisione di uno stesso luogo straniante e cupo che si impone sulle loro vite.



Monument for Lost Time appare come una immensa sfera nera in cui i ricordi si perdono in un fumo di impenetrabilità e inaccessibilità che li rende ormai perduti, muti e vuoti, eppure presenti in un agglomerato di materia formalmente determinata che inghiotte e annienta.

Tracce di ricordi attraversano la pavimentazione del Padiglione Danese in forma di piastrelle lavorate artigianalmente che per più di un secolo hanno decorato la villa ottomana di Betlemme in cui è stato girato il film. Destrutturando il concetto di tradizione e autenticità, si trovano le piastrelle che, lavorate nella città palestinese di Nablus in Cisgiordania, pur sembrando prodotti identitari e originali palestinesi, sono invece modelli ripresi dall’Art Nouveau.

Queste impronte di passato, lasciate al calpestio dei fruitori, congiungono il mondo dei ricordi di Dunia al presente reale che percorriamo e ad un futuro prossimo, incerto e precario, in cui l’autenticità, l’origine, il passato e l’identità si confrontano brutalmente con una realtà che li mette in discussione, li scompone, svuotandoli di senso percepibile e comprensibile.

Nicoletta Provenzano
Nata a Roma, storica dell’arte e curatrice. Affascinata dalle ricerche multidisciplinari e dal dialogo creativo con gli artisti, ha scritto e curato cataloghi e mostre, in collaborazione con professionisti del settore nell’ambito dell’arte contemporanea, del connubio arte-impresa e arte-scienza.