LetteraturaPrimo PianoLa storia di Elagabalo, il più eccentrico e stravagante tra gli imperatori romani

Laura Fontanesi29 Luglio 2019
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Vario Avito Bassiano, noto ai più come Elagabalo – spesso indicato dalle fonti dell’epoca quale Pseudo-Antonino o Sardanapaolo – apparteneva a un’aristocratica e prestigiosa dinastia di re-sacerdoti siriani votati all’omonima divinità, “El-Gabal” (il Dio della Montagna), il “Sol Invictus” di Emesa, odierna Homs. Fu una personalità estremamente inquieta e stravagante; egli venne proclamato “imperator” dell’Urbe quattordicenne, grazie ai sottili intrighi politici orditi da Giulia Mesa, sorella della defunta imperatrice “filosofa” Giulia Domna, abile fautrice del riuscito colpo di stato che condusse al trono il giovane e inesperto nipote, la cui indole immatura e soggiogabile lo rese facile preda delle ingegnose manovre politiche dell’ambiziosa parente.

Elagabalo fu il penultimo esponente della monarchia militare istituita dai Severi; si proclamò discendente diretto – figlio illegittimo – del defunto Caracalla, suo predecessore particolarmente amato da soldati e legionari, governando sull’Impero per quasi un lustro, dal 218 al 222 d.C., perturbando e sconcertando il rigoroso e austero “mos maiorum” romano con le proprie eccentricità e il pittoresco culto solare che introdusse a Roma. Egli insediò l’esotico idolo aniconico siriano sulla sommità del Palatino, primigenio baluardo della romanità, prestigioso colle connesso alla mitica fondazione, in cui dimorava il nobile “genius loci” latino.

Il fervente imperatore, dopo essersi stanziato a Roma quale «giustiziere e restauratore dell’ordine pubblico», ordinò l’edificazione di un tempio, l’Elagabalium, sulla cima della rinomata altura palatina; Giove Capitolino venne spodestato dal vertice del “pantheon” romano a favore di “El-Gabal”, il quale venne incautamente imposto all’acme della severa religione statale. Nell’”Urbs”, la situazione religiosa si profilava particolarmente caotica e articolata: cuore di un vastissimo impero dai labili confini, in essa confluivano genti e maestranze dai più remoti angoli del reame e, con essi, svariati culti e tradizioni di matrice alloctona. Nondimeno, grazie a una pratica cerimoniale denominata “evocatio”, prima di ogni scontro bellico, la divinità tutelare del “pantheon” nemico veniva invitata a risiedere nella capitale. Grazie a tali premesse, Roma si trasformò presto in un eterogeneo e variegato coacervo di credenze. I culti di origine orientale, in particolar modo, esercitavano una forte fascinazione su svariati substrati della popolazione, anche in conseguenza alla teatralità insita nell’apparato rituale, sovente contraddistinto da un cangiante repertorio di danze sfrenate, musica, canti e suoni gutturali. Una netta contrapposizione si poteva riscontrare rispetto al prosaico e austero cerimoniale latino, vincolato al costume degli antenati e caratterizzato da un marcato carattere ufficiale.

Un impero in cui corruzione, trivialità, vizio, ricchezze spropositate, indigenza, smarrimento individuale e insicurezza incipiente convivevano, plasmando le obnubilate menti e i costumi di un tessuto civile e sociale ormai logoro ma in costante evoluzione, che già conteneva entro le sue viscere il seme della propria futura autodistruzione. La maggior parte degli imperatori si succedevano repentinamente, inconsapevoli vittime della loro stessa cupidigia, di sanguinosi colpi di stato, in balia di pretoriani e legionari. Lo stesso Lucio Settimio Severo, antesignano iniziatore dell’omonima stirpe dei Severi, ne fu pragmaticamente consapevole. Si calcola che all’epoca, nella sola Penisola italiana, fossero stanziati non meno di trentamila uomini in armi. Settimio stesso aumentò le legioni da 30 a 33, ammonendo sistematicamente la prole sull’importanza di un esercito appagato e coeso grazie a proficue elargizioni di pecunia e continue agevolazioni, condizione all’epoca fondamentale al mantenimento di stabilità e imprescindibile garanzia alla propria autoconservazione.

Lo stesso Elagabalo, comparato inizialmente dai legionari a una sorta di «fanciullo salvatore» che avrebbe potuto riportare la stabilità (prospettiva in linea con l’epoca serotina, contraddistinta da degrado e profonda insicurezza nei confronti dell’avvenire), dovette occuparsi di mantenere il consenso e il favore dell’invenusta soldatesca. L’acquisizione all’interno della propria onomastica dell’avonimico Antonino, medesima pratica adottata dai suoi illustri precursori, sembra voler fungere da disperato tentativo di collegamento con la fiorente epoca antonina (98-180 d. C.), considerata un’età dell’oro ormai tramontata. Altresì, il conio subitaneo di nuovi aurei e l’emissione di una monetazione che esaltava la “Nobilitas” del giovane rampollo ebbe certamente anche una valenza propagandistica: in tal modo legionari e popolino avrebbero potuto interiorizzare l’effigie del nuovo sovrano.

Le monete in questione

L’infervorato imperatore – totalmente dimentico delle problematiche connesse all’amministrazione politica e civile di Roma e province, gestita abilmente dalle siriane (madre e nonna del giovane) – venne totalmente assorbito dal culto del sacro betilo solare (un’aerolite nero di forma conica), la cui origine, i proseliti del culto, erano soliti ricondurre al cielo e a maestranze divine. Agghindato, come imponeva la consuetudine sacerdotale siriana, con ampie tuniche color porpora ricamate d’oro, ricchi monili, con il capo cinto da un’opulenta corona ornata di pietre scintillanti, il sovrano si occupava freneticamente di organizzare stravaganti cerimonie e colorate processioni, di officiare cruenti sacrifici e predisporre liturgici e luculliani banchetti. Magnifici ludi, agoni, combattimenti e spettacoli vennero allestiti nell’illusa capitale. Dopo l’avvento di questo ennesimo culto solare (le teosincrasie solari erano già molto diffuse), il volgo si rivelò estasiato e favorevole, senza particolari fervori mistici apprezzava le prodighe distribuzioni e la liberalità professata dell’incauto Elagabalo.

 

Egli persegue sistematicamente, l’ho detto, la perversione e la distruzione di ogni valore e di ogni ordine, ma, ciò che è ammirevole e prova la decadenza irrimediabile del mondo latino, è il vedere come egli abbia potuto, durante quattro anni consecutivi, perseguire, davanti agli occhi di tutti, questo lavoro di distruzione sistematica, senza che nessuno abbia protestato.

Antonin Artaud, Eliogabalo o l’anarchico incoronato

 

La classe senatoria e l’antico patriziato – inizialmente fiduciosi – cominciarono prontamente a osteggiare tiepidamente l’ingestibile virgulto e le sue esasperate manifestazioni, attendendo pazientemente che la situazione evolvesse a suo discapito. Elagabalo si adoperò alacremente affinché ciò accadesse. La situazione ben presto, infatti, degenerò: tra i molteplici matrimoni voluti dal sovrano, fece particolarmente scalpore la violazione compiuta ai danni di una sacra vestale. L’incaponito fanciullo decise di convolare a nozze con l’illibata Aquila Severa, dopo averla preventivamente rapita. Molti cittadini – i romani erano estremamente rigorosi in merito al culto del Fuoco Sacro, le vestali avevano l’obbligo di mantenersi caste sino ai quarant’anni – deprecarono aspramente il connubio. Il giovane celò argutamente la propria esuberante passione personale dietro a motivazioni di carattere religioso: egli avrebbe compiuto una ierogamia, una sacra unione, al fine di procreare una stirpe divina. Inoltre, si sarebbe concretizzato un sincretismo tra il fuoco perpetuo custodito da Vesta e il fuoco del “Sol Invictus”. Il divino legame si rivelò improduttivo e l’unione terminò con il ripudio della sventurata sacerdotessa.

Un ulteriore biasimo da parte della cittadinanza lo investì quando, indefesso, preannunciò un ulteriore tentativo matrimoniale tra il venerato feticcio di Emesa e il “Palladium”, simulacro ligneo pervenuto da Atene e connesso al culto di Atena/Minerva. Anche in questo caso il puntuale riscontro si rivelò infecondo. Infine, tra l’ilarità generale, un altro idolo venne promesso al solare aerolite: la scelta cadde sul simulacro connesso a una divinità lunare, la punica Tanit, ubicato presso Cartagine. L’ennesima liturgia nuziale estrosa, spettacolare e sontuosa. Doni nuziali sfarzosi e cospicui vennero imposti ai cittadini e una sostanziosa dote fu richiesta a Cartagina, anche al fine di rimpinguare le casse dello stato, estremamente provate dalle dispendiose scelleratezze imperiali. Sacrifici e danze sfrenate avrebbero accompagnato la sfarzosa cerimonia, sotto lo sguardo attonito di senatori e cavalieri, chiamati a partecipare al significativo evento.

 

Ma se Eliogabalo passa di moglie in moglie come passa di cocchiere in cocchiere, passa anche di pietra in pietra, di vestito in vestito, di festa in festa e di ornamento in ornamento.
Attraverso il colore e il significato delle pietre, la foggia dei vestiti, la disposizione delle feste, dei gioielli che porta sulla pelle, il suo spirito fa degli strani viaggi. È qui che lo si vede impallidire, che lo si vede tremare, alla ricerca di uno splendore, di un appiglio al quale egli si aggrappa, di fronte alla fuga spaventevole di tutto. Ed egli corre di pietra in pietra, di splendore in splendore, di forma in forma, e di fuoco in fuoco come se corresse di anima in anima, in una misteriosa odissea interiore. Vi è in ciò la testimonianza di un’immensa, insaziabile febbre dello spirito, di un’anima assetata di emozioni, di gesti, di spostamenti, e che ha il gusto della metamorfosi. Qualunque sia il prezzo da pagare e il rischio in cui si incorre.

Antonin Artaud, Eliogabalo o l’anarchico incoronato

 

L’impudente e solerte adolescente si prodigò nella promozione di una sorta di enoteismo solare. Egli non negò mai gli altri numi, ma il “Sol Invictus” di Emesa imperava su tutti. In seguito verrà paragonato a una sorta di antesignana caricatura di Costantino dalle fonti pagane avverse al Cristianesimo. Ormai inviso ai più, nonostante l’inutilità e il servilismo della classe senatoria, egli perseverava in ogni sorta di dissolutezza ed empietà, a scialacquare il tesoro pubblico nella sfrenata ricerca di vani piaceri, di un appagamento che sfiorava ma non riusciva ad afferrare. Le fonti arcaiche asserirono quasi all’unanimità come nessun altro despota di Roma si fosse mai avvicinato alle licenziosità compiute e reiterate ostinatamente dall’incosciente regnante.

L’epilogo amaro della sua breve e bruciante storia non gli fu affatto favorevole: la sua morte fu orchestrata proprio da colei che lo condusse al dominio di Roma, Giulia Mesa, e dalla zia Giulia Mamea, quale “estrema ratio” all’ormai radicata convinzione che egli non avrebbe affatto garantito una solida continuità alla dinastia. Le siriane lo convinsero a proclamare Cesare il giovane cugino, Alessandro. I disperati eccessi lo condussero a una morte cruenta e disonorevole, trascinato e gettato nel Tevere, insieme alla madre, Giulia Soemia. Non fu onorato da fastose cerimonie funebri, né da una degna sepoltura. Disonorato, straziato dai pretoriani, il suo corpo martoriato verrà condotto tra le vie della città in una sorta di ferino e ignominoso trionfo, tra la manifesta e ilare approvazione di senatori e patriziato, esposto al ludibrio dell’ingrato e feroce volgo, dimentico di tutti gli effimeri benefici, dei fasti e delle generose elargizioni di cui aveva avidamente e rapacemente beneficiato.

Elagabalo fu un’accecante e infausta cometa: egli illuminò l’Urbe con ludici, sfarzosi ed effimeri diversivi per un breve lasso di tempo, divenendo inquietante e radioso monito – abbagliante e dunque celato – dell’inconfutabile quanto inconsapevole deterioramento cui l’Impero inesorabilmente stava approdando.

Laura Fontanesi

Archeologa, specializzata in archeologia classica e del Vicino Oriente antico, studiosa di culti antichi e tradizioni funerarie. Affascinata da parole, storie e arcaici numi. Ama scrivere, ascoltare, leggere, approfondire, progettare, creare.