Nel 1863 si tenne a Parigi una delle mostre più famose di sempre, quella del Salon des Refusés. Nel giorno della sua inaugurazione giunsero quasi settemila visitatori: un successo in fatto di numeri, ma un fallimento su altri fronti. La critica, infatti, si beffò delle opere esposte, così come la maggior parte dei fruitori. Scrisse Louis Esnault su Revue Française: «In generale la qualità dei quadri respinti è cattiva, più che cattiva: è deplorevole, impossibile, folle e ridicola. Vendica la giuria e fa ridere il pubblico a crepapelle».
Perché questi «quadri respinti» furono oggetto di scherno tanto da «far ridere il pubblico a crepapelle»? Per capire quello che accadde e la posizione degli artisti nell’ambiente parigino, è necessario introdurre il concetto di Salon. Il Salon nacque già alla fine del 1600, ma era riservato ai soli membri della Reale Accademia delle Arti, e prendeva il nome dal Salon Carré del Museo del Louvre nel quale si svolgeva. Dal 1700, l’esposizione si aprì anche ai non membri dell’Accademia, ma ciò comportava la possibilità di un rifiuto da parte di una giuria ad accogliere le opere che non rispettassero i canoni stabiliti. Esporre la propria opera al Salon rappresentava una grande occasione per gli artisti che, seppur ormai meno condizionati dalla committenza, erano legati al mercato dell’arte, per il quale l’esposizione fungeva da tramite. Infatti, la borghesia nascente guardava alla produzione artistica come a una possibilità di investimento. Arrivati al 1863, la suddetta giuria rifiutò circa quattromila dipinti: un fatto eccezionale, che fu molto discusso nei salotti, nei café, negli studi. Dato il grande scalpore, Napoleone III volle occuparsi personalmente della questione, e ordinò che tutte le opere scartate fossero esibite in sedi adiacenti il Palazzo, e così nacque il Salon des Refusés.

Per capire la rilevanza del Salon ufficiale, basti pensare che non tutti i “rifiutati” vollero partecipare alla nuova mostra, e circa seicento tra questi preferirono mantenere le distanze da quelli che non erano ritenuti artisti adeguati. La parte restante di essi, invece, vide in questa occasione la possibilità di evadere il severo giudizio accademico mostrandosi direttamente a un pubblico imparziale. Le settemila persone che parteciparono, spinte dalla curiosità, furono invece spietate: derisero le opere esposte, in quanto si allontanavano da un’arte ancora molto legata al mondo accademico, romantico e realista. Questi nuovi lavori erano il risultato di idee moderne, che venivano da lunghi dibattiti serali tra artisti come Edgar Degas, Pierre-Auguste Renoir, Jean-Frédéric Bazille, Claude Monet, Nadar. Artisti che prima di altri carpirono le novità che sarebbero state protagoniste degli anni successivi.
Lo stesso Émile Zola, scrittore e amico degli artisti rifiutati, da sempre interessato all’arte e in particolare ai nuovi modi di dipingere, descrisse l’esposizione nel suo romanzo L’oeuvre, un’opera fittizia con spunti autobiografici. Riferendosi a una delle tele esposte dal suo protagonista, scrisse: «Doveva essersi diffusa rapidamente la voce che c’era da vedere un quadro buffo, perché la gente correva disordinatamente per tutte le sale e gruppi di turisti temendo di perdersi qualcosa di importante, spingevano e gridavano. Le battute di spirito si sprecavano ed erano tutte riferite al soggetto del quadro. Nessuno lo capiva. Tutti lo consideravano pazzesco, incredibilmente comico. Ecco vedi, la donna sentiva troppo caldo, gli uomini invece avevano freddo, per questo sono vestiti». Palesemente, l’allusione è a Le Déjeuner sur l’herbe di Édouard Manet.

Édouard Manet, Paul Cezanne, Camille Pissarro, furono tra quelli che esposero le proprie tele quel giorno del 1863 e che furono fortemente criticati. Ma su tutti, oggetto principale di scherno fu proprio il dipinto di Manet. Oggetto sì di scherno, ma anche di scandalo, e fu per questo la principale attrazione dell’evento, tanto che lo rese di colpo il pittore più noto di Parigi. Come è evidente, l’opera raffigura un gruppo di quattro persone in un bosco. In primo piano una donna nuda, con la mano sotto il mento, guarda verso lo spettatore, mentre i due uomini in sua compagnia sono vestiti con abiti borghesi, e sullo sfondo una seconda donna in sottoveste fa il bagno. In basso a sinistra, si possono notare le vivande per la colazione dalla quale il dipinto prende il titolo. È evidente l’eredità che Manet acquisisce osservando i grandi maestri del passato all’interno del Louvre: il tema è senz’altro ripreso dal Concerto campestre di Tiziano, mentre la composizione del gruppo centrale è un riferimento al Giudizio di Paride di Raffaello.


A creare lo scandalo fu la modernità dell’opera. Nel dipinto di Tiziano, la nudità femminile è allegorica, un emblema divino di armonia e di virtù. La stessa arte accademica era ricca di nudi femminili, ma sempre idealizzati, spesso mitologici o storici. Il dipinto di Manet è di gran lunga lontano da questo mondo: la nudità risulta volgare e volutamente provocatoria, e gli stessi protagonisti altro non sono che semplici rappresentanti della borghesia parigina. Sconveniente risultò anche l’esecuzione pittorica. Manet ridusse l’utilizzo del chiaroscuro e delle sfumature creando contrasti violenti tra luce e ombra, riducendo anche volume e plasticità. Le forme sono definite con contrapposizione di colori chiari e scuri, toni caldi e freddi. La prospettiva risulta completamente errata e la profondità è solo accennata dall’alternarsi degli alberi. I personaggi sembrano quasi fluttuare e non risultano perfettamente integrati sullo sfondo. La totale mancanza delle regole pittoriche dell’epoca fa ben comprendere il motivo per il quale il Salon non potè accettare questa tela, che aveva oltretutto anche delle dimensioni troppo grandi rispetto al tema trattato. Scrisse sempre Zola: «[Manet] avrà rifiutato tutta la perizia acquisita, tutta l’antica esperienza, avrà voluto prendere l’arte dall’inizio, cioè dall’osservazione esatta degli oggetti. Si è dunque messo coraggiosamente di fronte a un soggetto, ha visto questo soggetto per larghe macchie, per opposizioni vigorose, e ha dipinto ogni cosa così come la vedeva».
Questa tela rappresenta, con il Salon des Refusés, un momento di svolta: una libertà nuova rispetto ai tradizionali modelli così come erano rappresentati. Per questo motivo, il 1863 è stato definito come l’anno più probabile in cui far cominciare la storia della pittura moderna. E forse, comincia proprio con questa tela. Manet non aderì a uno stile preciso, ma ne creò uno personale e riconoscibile, che fece da tramite tra Realismo e Impressionismo. Il nuovo movimento artistico nascerà solo pochi anni dopo, mutando le regole dell’arte, ma è questa mostra a soddisfare per prima i cambiamenti che il mondo artistico richiedeva ormai a gran voce.

Valentina Merola
Laureata in Didattica dell’Arte, ha conseguito i suoi studi tra l’Accademia di Belle Arti di Napoli e l’Université Paris VIII di Parigi, con indirizzo “Arts, Philosophie, Esthétique”. Appassionata di filosofia e arte, in particolare quella medievale e rinascimentale, amante di libri e vecchie cartoline.