LetteraturaPrimo PianoEdito INedito: “Homo Viator”, tra storia e metafora

Ginevra Latini21 Febbraio 2020
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Il cammino ha molteplici significati: è metafora di vita, è un viaggio esistenziale e ha a che vedere con il sacro, essendo la meta terrena una prefigurazione di quella ultraterrena. Il libro Homo viator (300 pp., 15 euro), recentemente edito da Edizioni La Vela, incentrato sulla storia del pellegrinaggio e sulle memorie degli antichi pellegrini (“homini viatores”), parte dal dato storico per poi soffermarsi proprio sul valore simbolico del pellegrinaggio o, in senso più esteso, del camminare.

La copertina del libro, edito da Edizioni La Vela

Il testo presenta una dicotomia tra storia e letteratura che si risolve in una comunione di intenti. É  proprio sul tema della metafora esistenziale del viaggio che si incontrano le disamine dei due autori. Luigi Russo, esperto di storia del movimento crociato e dei Normanni, è professore associato di Storia medievale presso l’Università Europea di Roma. Franco Cardini, professore emerito di storia medievale presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, si occupa invece principalmente dei rapporti fra mondo europeo e civiltà musulmana. La disamina di Russo adotta un approccio storico-filologico, la seconda uno sguardo più totalizzante.

Questa sorta di dialettica si evince già dalle citazioni scelte in apertura: la prima di Iacopo da Varazze – frate domenicano, arcivescovo di Genova e agiografo del Duecento – ha un carattere marcatamente storico-religioso: «Tempus peregrinationis est tempus presentis vite in quo peregrini et in pugna semper sumus»; la seconda, tratta da un celebre componimento del poeta spagnolo novecentesco Antonio Machado, è invece più letteraria e contemporanea: «Caminante, no hay camino: se hace camino al andar».

É curioso notare come il celebre poeta spagnolo parli molto nelle sue poesie della figura di un “caminante. Questa parola non ha un corrispettivo in italiano ma sembra ricalcare il carattere polisemico dei latini “homo viator e peregrinus“, termini che in un’unica volta possono alludere a un pellegrino, a un viaggiatore o a uno straniero. Inglobano quindi sia la sfera laica che quella religiosa e valorizzano quella dicotomia già accennata tra lettura letterale e figurale. Ed ecco la disamina del latino “pellegrino”:

 

«Il termine “pellegrino” deriva dal verbo latino “peragere”, che è quanto mai ricco di significati: da quello di “muoversi con inquietudine, senza tregua” a quello di “condurre a termine” (e quindi “perfezionare”, ma anche “morire”). Il “peregrinus” non è dunque semplicemente l’“advena” o l’“hospes” (lo “straniero” o lo “sconosciuto”). La parola “peregrinus” esprime l’estraneità e al tempo stesso l’estraniamento e lo spaesamento. Il pellegrino è tale in quanto straniero nella terra nella quale giunge; ma al tempo stesso l’espressione che lo qualifica è ambigua al punto tale da poter significare il contrario: in realtà egli potrebbe essere straniero nella sua terra d’origine, e la sua vera patria essere appunto la sua mèta. Il cristiano è cittadino del cielo, la sua vita è un pellegrinaggio perché egli parte dall’esilio e desidera tornare in patria»

 

Machado, per la sua attenzione alla figura delcaminante e per la progettualità del “camino, della via che si autogenera strada facendo, è diventato ai giorni d’oggi una sorta di “poeta vate” dei pellegrini. Sono le impronte dell’homo viator il cammino stessoson tus huellas el camino, y nada más») perché in realtà non esiste un cammino prestabilito («caminante, no hay camino»), dato che quello vero coincide con le orme che ti lasci alle spalle. I suoi versi sono dipinti sulle mura e sui monumenti di molte città situate sulle vie che conducono a Santiago de Compostela e sono costantemente recitati e cantati dai pellegrini di ogni nazionalità lungo le vie sacre. Fin da subito nel libro si cerca di mettere in relazione il dato storico con quello letterario: i fondamenti del pellegrinaggio nascono grazie all’attestazione scritta di queste esperienze mistiche. I pellegrinaggi diventano più frequenti contestualmente all’affermarsi del nuovo genere letterario-memorialistico degli Itineraria in Terrasanta, accompagnati dalle Descriptiones. Il “continuum memoriale della letteratura si oppone, così, al “discontinuum connaturato nella Storia.

L’attenzione degli autori in seguito viene posta sulla critica ai pellegrinaggi e al culto delle reliquie nella polemica “contra peregrinationes” e sulla dialettica viaggio-meta nella concezione altomedievale: si può intendere il pellegrinaggio come «viaggio, meta del quale è un centro, un ombelico, un luogo nel quale visibile e invisibile si incontrano». Viaggio che prevede un rientro in patria o che può essere senza prospettiva di ritorno, concepito come fase conclusiva di un’esperienza esistenziale, «una forma di conversione». Gerusalemme, ad esempio, è una meta che appartiene alla seconda tipologia di viaggio: viene vista come ultima tappa del viaggio terreno, meta del vero e unico viaggio senza ritorno. Oltre a Gerusalemme esistono altre città-santuario come Roma e Santiago de Compostela e le “stationes, dei piccoli centri di sosta che accolgono il pellegrino prima del suo arrivo. Alcune di esse sono le città del culto mariano in cui si conservano le reliquie della Vergine: Notre Dame di Chartres, Rocamadour, Lourdes, Fatima, Częstochowa, Medjugorie. Nel testo, Cardini e Russo esaminano inoltre le celebri “peregrinationes maiores del pellegrinaggio micaelico e del pellegrinaggio bretone: a San Michele sono dedicati tre santuari – Monte Gargano in Puglia, monte-tomba Mont-Saint-Michel-su-péril-de-la-Mer e la Sacra di San Michele in Piemonte – e la strada che li unisce è la via micaelica. Altre pagine sono dedicate ai pellegrini irlandesi che nell’altomedioevo diffondevano la cultura celtica in Europa, una cultura impregnata di “mirabilia, isole straordinarie e mostri marini.

Il pellegrinaggio poteva essere anche un viaggio di esplorazione: basti pensare al rapporto di interdipendenza tra viaggio e letteratura arturiana. La cittadina inglese di Canterbury ha goduto di grande fortuna, divenendo la prima città santa cristiana dell’Inghilterra e quindi centro di pellegrinaggio. Rimane legata – ancora ai giorni nostri – al tracciato della via Francigena grazie alle testimonianze del vescovo Sigerico, che nel 990 redasse una memoria del suo pellegrinaggio verso Roma. É a proposito di Canterbury che gli autori sfatano l’equivoco sul nome “Francigena”. È comune opinione pensare che la via Francigena ricalchi l’itinerario di Sigerico da Canterbury a Roma; in realtà il tracciato della via nasce come arteria stradale per collegare le tre mete delle “peregrinationes maiores: Santiago de Compostela, Roma e Gerusalemme. Sigerico, durante la sua discesa in Francia e in Italia, non fa altro che riallacciarsi alla già esistente grande via che univa Roma a Santiago (e viceversa). Il nome Francigena, in riferimento all’attraversamento del territorio francese, non rende quindi giustizia alla totalità della via né alle città più importanti che essa interseca, le tre grandi città-santuario della cristianità.

 

«Quando si parla di ‘Via Francigena’ – e se ne parla ormai di continuo – si parte da una specie di peccato originale: la riduzione almeno in partenza all’itinerario redatto da Sigerico vescovo di Canterbury che la percorse nel 990 provenendo da Roma. Il bravo monaco benedettino della fatidica Glastonbury, divenuto vescovo di quella che al suo tempo era la principale sede vescovile dell’Inghilterra anglosassone e che più tardi sarebbe stata illustrata dalle vicende del santo martire Tommaso Becket e dalla magica penna di Geoffrey Chaucer, ovviamente era partito dall’Inghilterra. Ma la Via Francigena – lo dice il suo stesso nome, per quanto in fondo sia un’etichetta che gli abbiamo attaccato noi – non partiva affatto da Canterbury: altrimenti si sarebbe chiamata Angligena. Peccato che, sulla base di un equivoco, ormai i media continuino a umiliare come strada tra Kent e Lazio un sistema stradale ch’era, in realtà, una parte della gloriosa rete di ‘cammini’ tra Santiago de Compostela e Gerusalemme»

 

I camminanti che intraprendevano questi viaggi erano nella maggior parte dei casi ricchi e non mancavano di catalogare tutte le difficoltà nelle quali si imbattevano. Una pellegrina d’eccezione è Egeria, monaca di Galizia del VII secolo elogiata da Valerio di Bierzo. Conterranea del monaco scrivente e dei destinatari, ebbe il coraggio di seguire le tracce della presenza divina partendo dalla sua terra e spingendosi verso Gerusalemme. Il suo resoconto è avventuroso: racconta della fatica provata, dei pericoli nei quali si è imbattuta e dell’indimenticabile ascensione alle montagne sacre; secondo Valerio di Bierzo era «temprata da Abramo come il ferro».

Ginevra Latini

Dottoranda in Italianistica, si è specializzata in letteratura contemporanea e filosofia moderna alla Sapienza. Ha curato numerose pubblicazioni su Ovidio. Studia pianoforte, si appassiona di filosofia, musica, arte, itinerari a piedi ed è attiva nel panorama editoriale.