Un classico ha molteplici chiavi di lettura: è probabilmente in questo che risiede l’immortalità dell’antico. Lo sguardo dell’esperto non si placa e non si stanca mai di osservare. L’occhio di chi indaga, nel tentativo di sviscerare ogni contenuto, non viene mai lasciato riposare; per questo, chi conosce profondamente l’opera, il suo autore e i suoi personaggi, trova sempre di che parlare, nonostante da lungo tempo si sia dedicato anima e corpo al suo approfondimento. Eppure, la posizione più comoda e felice è senz’altro quella del profano, che per la prima volta si imbatte in un classico. Spesso ignora la ricerca che vi è dietro, che probabilmente dura da secoli. Pensiamo a Dante, che continua da tempo immemore a essere studiato, analizzato, rivoltato in ogni sua parte. E per quanto lo si afferri dai piedi e lo si scuota, per quanto lo si torturi e dissezioni, cela sempre in sé misteri e un illimitato numero di insegnamenti, messi lì per i lettori di ogni epoca. Appunto, per i lettori. E ogni studioso non può che accettare che l’opera, che con tanta energia spreme da anni, probabilmente non è destinata alle sue mani chirurgiche; appartiene – ancor di più – ai lettori di ogni epoca, perché possano compiere il fatale quanto meraviglioso gesto di aprire un libro.
E se proprio dovessimo imbatterci in Edipo, di volumi ne dovremmo aprire parecchi. Troviamo in libreria la tragedia sofoclea, l’Edipo Re, e leggiamo il suo sequel, l’Edipo a Colono, che nasce come una tragedia a parte, non come il continuo dell’opera precedente. Non per nulla, Sofocle le scrisse in momenti assai diversi della sua vita: potremmo semplificare dicendo che l’una è l’opera della gioventù e la seconda il meraviglioso risultato della vecchiaia, al punto che quasi certamente il poeta non poté vederne la rappresentazione. La storia di Edipo, per come ci è giunta, di fatto coincide con la narrazione sofoclea. In origine, infatti, erano tante le versioni di questo mito; molte sono andate perdute, perché queste storie (e si parla di quelle che hanno avuto almeno la fortuna di essere scritte) erano destinate a materiali poco durevoli. Redatte su papiri, codici e pergamene, i rotoli venivano stipati in biblioteche e spesso questi luoghi incappavano in incidenti fatali, come il tremendo incendio della Biblioteca di Alessandria (anzi, i tremendi incendi, che si susseguirono tra il 48 a.C. e il 642 d.C.). Con la letteratura antica bisogna fare il callo con queste sfortune, che hanno causato perdite incalcolabili. Per non parlare di tutto quello che semplicemente non è stato ricopiato e trascritto, perché non considerato degno di trasmissione. Incidenti normalissimi, purtroppo, cui si aggiungono le insidie proprie della tradizione orale.
Il mito di Edipo, infatti, si perde nel tempo, come tante altre storie antiche. Innumerevoli eroi si aggiravano nei sogni e nelle parole del popolo greco e le loro storie avevano tutte uno o più insegnamenti. Certamente il mito di Edipo è ben conosciuto: il ragazzo giunge a Tebe, ignorando i suoi natali, risolve l’enigma della Sfinge, uccide inconsapevolmente il padre e, altrettanto inconsapevolmente, non solo sposa la madre, ma dà alla luce quattro figli, senza alcuna malformazione. Tuttavia, avendo compiuto un tremendo crimine contro natura, deve pagare. Scoppia una pestilenza nella città di Tebe. Nella versione sofoclea, il popolo invoca il re e si approssima al suo palazzo. Domanda aiuto e una soluzione che possa mettere fine al male che ha piegato il regno. La peste, però, non è casuale: è indice che sia stato commesso un atto impuro, funzionando come un meccanismo sì punitivo, ma soprattutto purificatore. Se scoppia la peste, vuol dire che gli dei domandano un cambiamento. E allora Edipo compie un’indagine, presentandosi come il primo investigatore della storia, ignorando totalmente di essere il colpevole. A tal fine, usa la ragione, il suo grande pregio, il suo potere speciale; indagando, scopre la verità. La moglie/madre si uccide, Edipo si acceca.
Oltre a Edipo, nei miti greci vi sono altri eroi noti per la propria spiccata intelligenza. Su tutti, Odisseo (o Ulisse, alla latina) e Sisifo, eroe particolarmente furbo, punito dagli dei e costretto a trascinare una roccia sino alla cima di un monte, inutilmente, perché poi è costretto a farla ruotare a valle e a ricominciare la sua eterna fatica. L’intelligenza non è considerata negativamente, ma può rivelarsi un peso. Spesso, chi è intelligente è tracotante, e la “hybris” (la superbia) è per gli dei imperdonabile. Edipo è intelligente, si basa totalmente sulla sua razionalità, e non vede oltre, incappando in un limite tipicamente umano. Per quanto possa essere acuto, non può oltrepassare tale limite, non può leggere il disegno divino (o il modo in cui la sorte agisce intorno a lui). Non vede la sua colpevolezza, perché non può vederla.
Quando si narrava il mito divino, si insegnava che il fato non fosse in alcun modo scrutabile e che fosse impossibile sfuggire ai suoi disegni, alle sue macchinazioni. Inutile ingegnarsi, cercare una scappatoia, tentare di scorgere nitidamente gli eventi. Perché l’essere umano è limitato per natura e nulla può senza gli dei. E, naturalmente, tutto sfugge a questo essere d’argilla che è l’uomo, al quale non resta che limitarsi a leggere i segnali, comportarsi in modo pio e timoroso degli dei, evitando di far scoppiare qualche pestilenza nella propria città.

Adele Porzia
Nata in provincia di Bari, in quel del ’94, si è laureata in Filologia Classica e ha proseguito i suoi studi in Scienze dello Spettacolo. Giornalista pubblicista, ha una smodata passione per tutto quello che riguarda letteratura, teatro e cinema, tanto che non cessa mai di studiarli e approfondirli.