Immaginate. Immaginate di avere 14 anni. Immaginate di esservi appena trasferiti in una sperduta cittadina del Montana insieme ai vostri genitori. Immaginate di essere felici di ciò che avete. Immaginate di guardare i vostri genitori battibeccare dolcemente. Di vederli con il sorriso. Immaginate che quei sorrisi scompaiano di colpo. Immaginate che i due pilastri che vi sorreggevano si dividano, lasciandovi a terra e costringendovi a sostenervi con le vostre deboli gambe, troppo giovani per reggere il peso della vita. Immaginate di dover crescere improvvisamente, costretti dalle circostanze.
Questa è l’istantanea di vita raccontata in Wildlife, film del 2018 diretto da Paul Dano. Un’istantanea difficile, crudele, ma anche innocente e rassegnata. La storia dello sfaldamento di una famiglia mostrato dal punto di vista di un adolescente che sta iniziando a comprendere le dinamiche della vita adulta. Un modo di raccontare, questo, caro al cinema d’autore. Un cinema che da sempre ha raccontato frammenti di vita, postille di un’esistenza più ampia ma di scarso interesse per i registi, eletti a unica entità onnisciente di questo tipo di narrazione audiovisiva. Molto spesso viene adottato da questi autori il punto di vista di chi è ancora innocente, ultima speranza per la salvezza dalla desolazione e dalla decadenza.
Paul Dano sembra aver ripreso questi ideali e averli sapientemente applicati alla sua opera prima, per mostrarci una storia dolorosa attraverso lo sguardo di un ragazzo, Joe (un superbo Ed Oxenbould). La regia di Dano è distintiva, con lunghi e puliti “long take” che – con l’evolversi degli eventi – lasciano via via spazio a soluzioni più “sporche” e movimentate. Lo stile – pur non distaccandosi troppo dalle sue origini – muta con lo svolgersi della trama, seguendo l’evoluzione degli stati d’animo e la tensione interna di questo nucleo familiare pronto a esplodere. L’idea di “voce guida” è particolarmente aderente alla funzione di Joe nelle vicende narrate, in quanto si tratta di un personaggio che non ha desideri che lo conducano a compiere un’azione per raggiungere i suoi scopi. Si accorge di ciò che sta accadendo intorno a lui, eppure non fa nulla per impedire la disgregazione della sua vita domestica. Non agisce, bensì subisce. Il suo sguardo vaga senza meta, senza obiettivi.
Cosa porta una famiglia all’apparenza perfetta a disintegrarsi? Il filo rosso che accomuna i tre membri della famiglia è l’egoismo e l’egocentrismo. Infatti, ognuno di loro, più o meno marcatamente, è alla ricerca di un’esistenza soddisfacente, anche a prezzo del benessere degli altri. Questa tendenza a voler prevalere a ogni costo, infischiandosene delle vite dei cari, porta inevitabilmente alla rottura della stabilità familiare. Joe, seppur non agendo mai direttamente, è visibilmente scosso dagli attriti tra i due genitori. L’unico istante in cui si dimostra egoista – anche se in forma minore e decisamente innocua rispetto ai suoi genitori – è nel momento in cui decide di fare una foto di famiglia. Alla prima negazione dei due genitori, che si rifiutano di prendere parte allo scatto, Joe ribatte con l’affermazione che la foto è solo “per lui”. In quel momento non gli interessa che la loro relazione familiare non sia più come quella di una volta, non gli interessano le volontà e i sentimenti dei genitori. Vuole scattare quella foto e basta, così da imprimere in modo indelebile una vita che vorrebbe vivere e che, in effetti, stava vivendo fino a poco tempo prima. Cerca stabilità attraverso l’impressione fotografica di un attimo che, ai suoi occhi, sembra eterno.
Il padre, Jerry (interpretato da uno splendido Jake Gyllenhaal), è invece il primo a dimostrarsi egoista nei confronti della famiglia. A causa della sua fierezza, rifiuta di tornare a lavorare nel luogo dal quale lo avevano licenziato, costringendo madre e figlio a trovarsi un impiego mentre lui cerca di capire cosa fare della sua vita. Trova la sua nuova vocazione nell’andare a domare un incendio sulle montagne per un dollaro l’ora, una cifra tutt’altro che significativa; la sua scelta lacera definitivamente il nucleo familiare. L’unico momento di vera riflessione giunge alla partenza, quando dice al figlio: «Sei troppo grande per darmi un bacio? Anche gli uomini si vogliono bene». In questa scena abbandona le sue convinzioni per qualche istante, sostituite da un’improvvisa voglia d’affetto, probabilmente provocata dall’insicurezza della decisione che ha preso.
Ed è proprio in questo momento che esce allo scoperto Jeanette (un’altrettanto superba Carey Mulligan), la madre di Joe. Lei è quella che più di tutti risente del crollo della stabilità familiare, circostanza che la porta ad agire d’istinto, assecondando una costante tendenza all’autodistruzione. È talmente smarrita nella sua ricerca di una collocazione sociale che non pensa minimamente al bene di chi le sta intorno. Capisce, d’improvviso, che la vita nella quale si ritrova non è più quella alla quale aspirava. Nel momento in cui si trova a dover prendere in mano le redini della sua esistenza, vive una sorta di crollo nervoso. La libertà non le porta altro che infelicità e indecisione. Si accorge che il mondo al quale aspirava è uno specchio per le allodole.
Si ritrova a oscillare tra la costante ricerca della scalata sociale e l’innata repulsione per le classi agiate. Insicurezza che è traducibile in una lotta tra il tradimento e la fedeltà. Non solo. A ostacolare la felicità della donna è anche l’età. Infatti, Jeanette si considera “vecchia”, nonostante abbia solo 34 anni. Sono diverse le occasioni durante le quali, parlando con il figlio, cerca di apparire giovane e sensuale, cercando approvazione nella sua giovinezza. Questa tendenza la porta a pensarsi come una donna “arrivata”, alla quale sono già state concesse abbastanza opportunità per costruirsi un’esistenza solida e appagante.
Oltre ad affrontare la storia di un divorzio vista dal punto di vista di un ragazzo, Wildlife è anche un racconto di formazione, ma non in modo convenzionale. Infatti, Joe è già perfettamente capace di comprendere la situazione che sta vivendo. Sono le persone che lo circondano a pensare che non possa capire in quanto “troppo giovane”. La madre Jeanette glielo ripete continuamente. Per lei, Joe è solo un ragazzo che non vede il mondo per come è veramente, quando invece è proprio lei a vivere in una realtà fittizia, fatta di convinzioni che si è auto-imposta ma che non riescono ad arginare la sua crescente infelicità.
Joe è il più lucido tra tutti. Questo, però, non tanto perché sia un ragazzo particolarmente forte di spirito e carattere quanto – piuttosto – perché, come si diceva all’inizio, svolge il compito di guida in questa narrazione cinematografica. È un personaggio al quale il regista aderisce per tutta la durata del film e che quest’ultimo utilizza come mezzo di esplorazione di un frammento di vita che racchiude una cultura intera. È cosciente solo perché lo è anche il direttore artistico. Joe è il traghetto di Caronte che accompagna lo spettatore sull’altra riva dello Stige, solcando delicatamente le turbolente acque squarciate dai lamenti frammentati di vite ignorate.

Mattia Pescitelli
Nato a Roma, è attualmente studente di Cinema, Televisione e Nuovi Media in DAMS presso l’Università degli Studi Roma Tre. Oltre all’amore per il cinema, prova anche un profondo interesse per il mondo della fotografia e delle Arti nel loro insieme, apprezzando quando questi entrano in collisione e si amalgamano per diventare un unico ibrido.